giovedì 25 agosto 2016

IL BUSINESS ED IL MERCATO DELLA SOLIDARIETÀ

Nel settore cattiva gestione e concorrenza per accaparrarsi i donatori. La testimonianza dello scrittore Petrone: «Rolex e guadagni di 900 euro al giorno per i manager delle società di raccolta fondi».
Un sistema piramidale in cui i manager di società raccolta fondi arrivano a guadagnare oltre ventimila euro al mese. Niente a confronto dei milioni destinati, invece, al vice-presidente. Cifre assurde, ancor più se comparate con le finalità delle onlus (organizzazione non lucrativa di utilità sociale) che all'operato di queste società si servono. È quanto viene raccontato nel libro di Francesco Petrone, intitolato Quando la onlus diventa un guadagno. Tecniche per arricchirsi salvando i bambini, dal maggio scorso nelle librerie con Aracne Editore.
ESPERIENZA PERSONALE. Partendo da un’esperienza personale, Petrone racconta eventi svoltisi tra il giugno del 2008 e il marzo del 2010, periodo nel quale l’autore si trova alle dipendenze di una grande azienda specializzata nella pubblicità face to face. «Serpente marketing», così ribattezzata nel libro, al pari di altre realtà del settore, oltre che con grandi partner del comparto profit è legata a doppio filo con diverse onlus di caratura internazionale, per le quali svolge attività di raccolta fondi.

Un sistema piramidale che dà la caccia a nuovi donatori



Lo studio di Petrone si basa su un’avventura lavorativa durata un anno e mezzo, durante la quale l’artefice dell’opera ha ricoperto il ruolo di dialogatore, cioè colui che va alla ricerca di nuovi sostenitori per i progetti umanitari, nello specifico legati all’infanzia ed ai diritti dei bambini soprattutto nei Paesi del Terzo Mondo. «Nel mio ufficio», afferma l’autore a Lettera43.it, «il mio capo - ovvero il manager che dirige una singola sede dell’impresa - prendeva una percentuale per ciascun nuovo sostenitore raccolto dai componenti della sua squadra, composta da venti dialogatori.
PROVVIGIONI D'ORO PER L'OWNER. Se in un giorno ogni membro riusciva ad accaparrarsi la solidarietà di almeno un individuo, al capo (owner nel linguaggio aziendale) spettavano 45 euro per ciascuno di essi, per un totale di 900 euro in un solo giorno».
A tutto ciò va aggiunto il fatto che molti dialogatori - cui spettava un semplice contratto a progetto di 500 euro al mese più provvigioni - nel corso di una giornata lavorativa si assicuravano mediamente più di un’adesione ai progetti. In questo business della bontà, è, dunque, facile intuire che la retribuzione destinata al manager era ben più consistente.
AL VICEPRESIDENTE ROLEX E STIPENDI A SEI ZERI. Ma la direzione di un singolo ufficio è solo il passo preliminare di una scalata che porta a ricoprire l’ambita posizione di vice-presidente. Quest’ultimo riceve percentuali per ogni ufficio sotto il suo controllo (solitamente diverse decine) e può assicurarsi nel proprio conto in banca cifre da capogiro quantificate in vari milioni di euro all’anno. «Quando si raggiunge il traguardo da vice-presidente», spiega ancora l’ex dipendente della «Serpente», «la società regala al fortunato un assegno con cifre altissime e un Rolex, come segno di riconoscimento, del valore di 30 mila euro».
MECCANISMO PERVERSO. La strategia denunciata da Francesco Petrone, è giusto chiarirlo, non presenta niente di illegale. Ma quanto illustrato appare certamente in netta contraddizione con le prerogative etiche e morali tanto decantate nello statuto delle stesse onlus. Affiancandosi a società come la «Serpente», queste entrano a far parte di un circuito che, attraverso determinate leggi di mercato, favorisce tali imprese a generare profitti «vendendo povertà», per riprendere l’espressione adoperata nel libro.
L’ALLARME DELLA POLMAN. Petrone non è il primo ad evidenziare il giro di miliardi di euro attorno alle associazioni umanitarie. Nel 2009 la reporter olandese Linda Polman ha parlato di una vera e propria industria della solidarietà, alla base della quale vi era la competizione spietata tra le ong, in forte concorrenza per le sovvenzioni dei donatori. «Se le organizzazioni umanitarie lavorassero insieme», ha spiegato la Polman, «molti meno soldi verrebbero sprecati per la posizione e la sopravvivenza delle organizzazioni stesse, e ci sarebbero più fondi per il sostegno alle popolazioni».

Bertani di Emergency: «Dai bilanci delle onlus emerge la cattiva gestione»

Contattato da Lettera 43.it, il vicepresidente e responsabile della raccolta fondi di Emergency, Alessandro Bertani, non nega l’esistenza del problema. «Si tratta di una situazione abbastanza delicata basta dare uno sguardo ai bilanci di alcune organizzazioni umanitarie per rendersi conto di come vengono gestite determinate quantità di denaro». Il numero due dell’associazione fondata da Gino Strada, sospinta dall’attivismo dei propri volontari ma anch’essa non immune da critiche, ammette sì una collaborazione tra Emergency e società di marketing ma, precisa, «è assolutamente saltuaria ed esclusivamente incentrata sulla comunicazione».
E infine sottolinea il problema della competizione tra associazioni, sempre più un affare commerciale: «Non so se sia possibile una cooperazione a più livelli tra organizzazioni umanitarie, ma ciò che ritengo importante è la concreta cooperazione sul campo, molto più che quella strategica».
SAVE THE CHILDREN: ALLE POPOLAZIONI IL 77% DEI FONDI. Che le diverse tipologie di raccolta fondi siano spesso basate sulle competenze sia interne che esterne all’organizzazione, come nel caso face to face, viene confermato anche da Save the Children Italia. «Proprio il contatto diretto con il pubblico», riferisce Daniela Fatarella, Direttore Marketing & Communications, «rappresenta un valore aggiunto fondamentale perché ci da la possibilità di raggiungere in modo capillare i potenziali donatori con una proposta di donazione regolare». Fatarella definisce, inoltre, la famigerata competizione tra associazioni umanitarie «un confronto in positivo» perché «spinge ciascuna organizzazione a migliorarsi continuamente».
Da Save the Children assicurano, quindi, di non temere una perdita di credibilità. «Ad oggi», conclude, Daniela Fatarella, «impieghiamo direttamente nei progetti realizzati il 77% dei fondi raccolti, mentre solo il rimanente 23% è destinato a coprire diversi costi, compresi quelli della stessa raccolta fondi».

Una grossa fetta della donazioni serve a pagare le società di raccolta fondi

Al centro dell’insana relazione tra solidarietà e libero mercato, le grandi associazioni umanitarie sono, comunque, parte attiva di un meccanismo che, è lecito osservare, andrebbe in parte ripensato. Ad averne i maggiori vantaggi sarebbero l’immagine delle suddette organizzazioni e soprattutto le tante persone sparse in tutto il mondo costrette a vivere in condizioni di sofferenza. Non c’è dubbio che le attività svolte dalle onlus nascono da motivazioni idealistiche di assistenza e sostegno alle popolazioni svantaggiate, ma appare chiaro che per restare dentro questo business si è costretti ad accettare le regole del gioco.
MEGLIO LA BENEFICENZA LOCALE E DIRETTA. «Bisogna tener presente», aggiunge Petrone, «che una donazione mensile di venti euro non arriva direttamente ai progetti. Il primo anno di donazione viene, infatti, impiegato per ricoprire le spese della «Serpente» e quelle amministrative della onlus. Molti, inoltre, interrompono l’offerta dopo qualche mese senza aver donato praticamente niente ai bisognosi». Da questo punto di vista, secondo l’autore, le piccole organizzazioni risultano più affidabili. «Fare beneficenza in un ambito locale e con risultati tangibili è senza dubbio molto più sicuro ed efficace».




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