«Durante la Grande Depressione, che io sono vecchio abbastanza da ricordare, la maggior parte dei membri della mia famiglia erano lavoratori disoccupati. Si stava male, ma c'era la speranza che le cose potessero andare meglio. C'era un grande senso di speranza. Oggi non c'è più». Iniziano così i 112 minuti di Requiem for the American Dream, frutto del lavoro di 4 anni di Peter Hutchison, Kelly Nyks e Jared P. Scott, un prodotto che più che un documentario somiglia alla lezione finale di un grande interprete dei nostri tempi, forse il più grande: Noam Chomsky.
Professore al MIT di Boston, ma soprattutto attivista e anima della sinistra americana per più di mezzo secolo, Chomsky, che ora ha 87 anni, parla con la calma e la tranquillità di un grande vecchio che, senza fretta e senza quel pathos tipico dell'indignazione, unisce i puntini che il capitalismo americano ha lasciato dietro di sé e descrive limpidamente l'esatta dimensione della sfida che abbiamo davanti. O della tragedia.
Al centro del discorso di Chomsky c'è il terrificante — seppur preannunciato — risveglio di una nazione dal cosiddetto "sogno americano", quell'American Dream che ha lasciato sul campo una delle più gravi e profonde disuguaglianze della Storia moderna.
Chomsky parte dall'inizio della storia americana, dai giorni i cui i padri fondatori costituivano il Senato sulla base della missione molto precisa di proteggere la minoranza delle classi abbienti e limitare la democrazia, ovvero il potere della maggioranza. Una missione poi rafforzata e rilanciata negli anni Sessanta, come reazione alle proteste e all'organizzazione della popolazione. Una reazione potente, precisa, disarmante, che nemmeno lui stesso all'epoca seppe riconoscere, e che oggi lascia un mondo in rovina, con un sistema economico ridisegnato sulle esigenze della finanza, ma soprattutto con la programmatica trasformazione di una classe — i lavoratori — in una galassia informe di precari.
Disinformati da una informazione che da cane da guardia del potere si è trasformata in cane da guardia al servizio del potere, alienati dalla frammentazione del tessuto sociale e commerciale, isolati nell'economia del lavoro e nella stessa vita privata: la creatura sociale che ha preso il posto di quei lavoratori che tanto hanno spaventato la classe dirigente nel Novecento è franta, alienata, depressa e sempre più ignorante. È diventato un popolino che non sa più chi votare, schiavo dell'intrattenimento, marginalizzato nella vita politica.
Lo spettro che si aggirava per l'Europa a metà dell'Ottocento, ovvero quelle prima generazioni di lavoratori che seppero rispondere alla prima industrializzazione e che convinsero Marx a credere che potessero essere il motore del cambiamento e la materia umana dell'uomo nuovo, è ormai diventato il fantasma di se stesso. Un esercito di fantasmi sfruttati, ma soprattutto — ed è l'ultimo punto del decalogo di Chomsky — un esercito marginalizzato.
«Il 70 per cento della popolazione», dice Chomsky, «non ha alcun modo di influenzare la politica». L'attivismo esiste, ma è sempre più morbido, isolato, rannicchiato e di conseguenza inutile. La rabbia della gente si sta accumulando, conclude Chomsky, e «sta prendendo la forma di una rabbia non focalizzata, frustrata». Il risultato ce l'abbiamo già tutti davanti agli occhi tutti: la disintegrazione sociale, la lotta non più di una classe sfruttata e subalterna contro una classe superiore e abbiente, ma una lotta intestina tra poveri.
Requiem for the American Dream sarà proiettato in anteprima italiana mercoledì 13 aprile alle 17.45 a Pordenone e segnerà l'inizio della IX edizione del festival documentaristico Le voci dell'inchiesta, organizzato da Cinemazero e sostenuto dalla Regione Friuli Venezia Giulia e dalla città di Pordenone, che durerà fino a domenica 17 aprile.
http://www.linkiesta.it/it/article/2016/04/12/lultima-lezione-di-noam-chomsky-un-pacato-invito-alla-rivolta/29944/
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