martedì 8 marzo 2016

NON CHIAMATELA FESTA DELLA DONNA, ma COMMEMORAZIONE

Berta Cáceres: l’ultima vittima del business dello sviluppo
(Gabriele Crescente, giornalista di Internazionale)
Mentre la visita di Obama a Cuba e la firma degli accordi di pace in Colombia sembrano rappresentare la fine degli strascichi della guerra fredda, si può essere tentati di pensare che l’America Latina sia ormai un continente pacificato e avviato verso lo sviluppo, e che la violenza sia limitata alle guerre tra bande criminali. Ma l’omicidio di Berta Cáceres, uccisa in Honduras il 3 marzo, dimostra che la violenza politica non è affatto scomparsa, ed è in gran parte motivata proprio da quello che chiamiamo sviluppo.

Berta Cáceres non era un’ambientalista, com’è stata descritta negli ultimi giorni dai mezzi d’informazione. Se avesse dovuto scegliere un termine, probabilmente si sarebbe definita una luchadora, una lottatrice. La lotta che ha combattuto per oltre vent’anni non era solo in difesa dell’ambiente: era prima di tutto una lotta politica, esistenziale. Era una lotta per la vita o la morte.
L’America Latina è il continente dove si registra il più alto numero di omicidi di attivisti. In rapporto alla popolazione, l’Honduras è di gran lunga il paese più colpito. Non è un caso. Dall’inizio del novecento, quando la United Fruit vi si stabilì con le sue enormi piantagioni di banane e i marines statunitensi cominciarono a intervenire regolarmente per stroncare i movimenti sindacali e insediare governi fantoccio, il paese è stato un laboratorio per la messa a punto di quel modello di ultraliberismo economico e repressione politica che sarebbe poi stato esportato nel resto del continente e oltre.
Eredità coloniali
Per applicare questo modello è stato fondamentale l’appoggio dell’aristocrazia locale, un ristretto gruppo di famiglie di latifondisti che fin dal periodo coloniale occupa i vertici dell’economia, della politica e dell’esercito. Nelle aree rurali queste famiglie detengono un vero e proprio potere feudale, e si rifiutano perfino di riconoscere l’esistenza delle comunità indigene: occupano le loro terre, saccheggiano il loro legname, mandano le vacche a calpestare i loro campi. “Sono convinti che l’Honduras sia il loro pascolo”, mi aveva detto Berta nel 2006.
Durante la guerra fredda l’Honduras è stato la base operativa delle controrivoluzioni orchestrate dagli Stati Uniti in Guatemala, El Salvador e Nicaragua, e gli squadroni della morte reprimevano qualunque forma di opposizione. Dopo il crollo del blocco sovietico, quando la pressione sul paese si è allentata, Berta e i suoi compagni hanno fondato il Consiglio delle organizzazioni popolari dell’Honduras (Copinh). Hanno organizzato le comunità e le hanno aiutate a resistere materialmente ai soprusi.
Soprattutto, hanno rotto la sudditanza psicologica che secoli di dominio avevano imposto agli indigeni, permettendogli di recuperare la propria cultura e la propria dignità. La risposta dei latifondisti e delle autorità è stata violentissima. I membri delle comunità resistenti sono stati uccisi, torturati e incarcerati. Ma ormai i semi avevano attecchito.
Le popolazioni indigene non vengono consultate e neanche avvertite. Si svegliano e vedono arrivare le ruspe
Negli ultimi anni, con il boom globale della vendita di materie prime, i latifondisti hanno scoperto un nuovo modo di arricchirsi con la terra: l’estrazione mineraria. Insieme alle miniere è arrivato un altro business, quello degli impianti idroelettrici necessari a farle funzionare in mezzo alla foresta pluviale. Le dighe hanno un vantaggio: possono essere spacciate per opere d’interesse pubblico, che producono energia pulita e migliorano l’accesso all’acqua potabile, e ottenere così enormi finanziamenti dalle istituzioni internazionali e dai fondi di cooperazione allo sviluppo.
È uno schema che si ripete in tutta l’America Latina e non solo. E nella maggior parte dei casi le popolazioni indigene, che dovrebbero essere le prime beneficiarie dello sviluppo portato da questi progetti, non vengono consultate e neanche avvertite. Si svegliano una mattina e vedono arrivare le ruspe.
Nel 2009 l’Honduras ha rispolverato una tradizione locale che sembrava dimenticata da anni, quella del colpo di stato. L’esercito ha rovesciato il presidente Manuel Zelaya, che cercava di farsi rieleggere con il sostegno dei movimenti sociali, e ha sospeso le libertà fondamentali.
Berta Cáceres aveva svolto un ruolo di primo piano nelle manifestazioni contro il golpe ed era diventata una figura di riferimento per tutto il paese. Qualche mese dopo, mentre era ancora in vigore lo stato di emergenza, erano state convocate delle elezioni per legittimare il nuovo regime. Di fronte alle obiezioni sollevate dalla comunità internazionale, un gruppo di nove paesi aveva dichiarato che avrebbe riconosciuto il voto. Tra questi, oltre agli Stati Uniti, c’era l’Italia, sede di alcune grandi aziende che in Honduras hanno importanti interessi nel settore delle infrastrutture, e in particolare proprio in quello delle dighe.
La diga della discordia
Il nuovo governo ha subito accelerato la privatizzazione delle terre, la concessione di licenze minerarie e la costruzione di impianti idroelettrici. Uno di questi era la diga di Agua Zarca, un progetto finanziato tra gli altri dalla Banca mondiale e dai fondi di cooperazione allo sviluppo di Stati Uniti, Paesi Bassi e Finlandia.
Il Copinh ha cercato di fermare i lavori con blocchi stradali e altre azioni pacifiche. Uno dei suoi leader, Tomas García, è stato ucciso da un militare durante una manifestazione, ma la sua morte non ha fatto che amplificare le proteste. Alla fine la Banca mondiale ha ritirato il finanziamento e la compagnia che doveva realizzare la diga si è tirata indietro. La costruzione è stata sospesa, ma le minacce contro Berta Cáceres hanno cominciato a moltiplicarsi.
L’anno scorso, quando Cáceres ha ricevuto il premio Goldman per la campagna contro Agua Zarca, molti suoi compagni hanno tirato un sospiro di sollievo: pensavano che l’attenzione internazionale l’avrebbe protetta. È successo il contrario. La sfrontatezza degli assassini e delle autorità honduregne, che stanno cercando di far passare l’omicidio per un crimine passionale, è un messaggio chiaro: possiamo colpire chiunque, e possiamo contare su un’impunità assoluta.
Ma è anche un segno di paura. Cáceres aveva dimostrato che le lotte sociali si possono vincere, anche in Honduras, e stava diventando un elemento di aggregazione politica in tutto il paese e oltre. Se avessero aspettato ancora sarebbe stato troppo tardi per fermarla. E non è detto che non lo sia già.
“Stiamo affrontando grandi mostri”, mi aveva detto Berta dieci anni fa. “Non è facile, ma non è nemmeno impossibile. Abbiamo delle responsabilità storiche, e tra queste c’è far sapere a tutti che siamo un popolo fiero, che ha resistito in ogni modo”.

FONTE: http://goo.gl/IHxGFL





In memoria di Berta Càceres
“Non era solo mia figlia, ma anche un’amica, un compagna di lotte”. Sono le parole di Flores, la madre di Berta Càceres, nei giorno dei suoi funerali. Si sono svolti a La Esperanza, a 200 chilometri dalla capitale Tegucicalpa, in Honduras. Berta aveva compiuto da poco 45 anni. E’ stata uccisa nella notte tra il 2 e il 3 marzo.
Questa la ricostruzione del fratello: “Due killer sono entrati nella casa di mia sorella. Lei, sentendo i rumori, si è svegliata e ha cercato di difendersi, ma gli hanno spezzato un braccio e una gamba. Poi hanno sparato otto colpi di pistola”.Per la polizia si tratta di una rapina finita male, ma Flores,la madre di Berta, accusa il governo: “Non ho alcun dubbio che sia stata uccisa a causa della sua lotta e che i soldati e la gente della diga siano responsabili. Ne sono sicura. Ritengo il Governo honduregno responsabile”.
Berta Cáceres, nel 2015, aveva ricevuto il premio Goldman, uno dei più prestigiosi al mondo sui temi ambientali, per la sua collaborazione nella difesa del territorio Lenca (dove si trova uno dei popoli più antichi del Centro America, ndr), minacciato dalla costruzione della diga del Proyecto Hidroeléctrico Agua Zarca, della multinazionale cinese SINOHYDRO e dell’impresa onduregna Desarrollo Energético Sociedad Anónima (DESA). Da anni il popolo Lenca denunciava la violazione del diritto all’acqua come fonte di vita e di cultura e le vessazioni e le minacce di imprese, paramilitari e governo.
Berta Càceres sapeva benissimo i rischi che correva, tanto che aveva trasferito le quattro figlie in Argentina per ragioni di sicurezza. Eppure aveva deciso di non chinare la testa, di fare la propria parte e lo aveva espresso così: “Dobbiamo intraprendere la lotta in tutte le parti del mondo, ovunque siamo, perché non abbiamo un pianeta di ricambio. Abbiamo solo questo e dobbiamo agire”.
Cáceres, è stata rappresentante per oltre vent’anni del Consiglio Civico delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras (Copinh).
Il Copinh è stata fondato a La Esperanza nel 1993 e raccoglie 200 comunità Lenca. Ha fermato speculazioni minerarie, contribuito alla nascita di aree forestali protette, vigilato sulle violazioni dei diritti umani e promosso processi di autonomia, istituendo scuole, radio comunitarie, centri medici, antiviolenza e di formazione professionale.
Un movimento spesso minacciato dagli squadroni della morte al soldo delle imprese.
Sono stati 111 i militanti ambientalisti assassinati in Honduras tra il 2002 e il 2014, secondo la relazione pubblicata nel 2014 dalla ong inglese Global Witness. Molti omicidi sono avvenuti soprattutto dopo il colpo di Stato del 2009, seguito dall’impennata dei mega-progetti idroelettrici e minerari approvati.
Berta Càceres era diventata un punto di riferimento internazionale per i movimenti sociali, per la difesa dei beni comuni, inoltre aveva denunciato i pericoli dei trattati di libero commercio. Era molto stimata dai movimenti anche in Italia e in Europa. Movimenti che ora chiedono giustizia per Berta e dicono no all’impunità. Tra questi il C.I.C.A, collettivo che opera sia in Italia che in alcuni Paesi del Centro America campaign@stopcorporateimpunity.org
La Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidh) aveva stabilito per Berta Càceres l’adozione di misure cautelari. Doveva quindi avere protezioni speciali da parte del governo onduregno. Ma così non è stato.
Le ong dei diritti umani e ambientaliste lo considerano un delitto annunciato: “Càceres aveva ricevuto numerose minacce di morte per la sua militanza ambientalista e le autorità le avevano promesso una scorta della polizia, che però a quanto pare non è mai arrivata”, spiegano.
Ai funerali, nelle strette vie di La Esperanza, hanno partecipato migliaia di persone. Rabbia, dolore, commozione , ma anche la determinazione di continuare la sua lotta, hanno attraversato la manifestazione che ha accompagnato la bara bianca di Berta Càceres.
“Berta vive, la sua lotta continua”.

FONTE: http://goo.gl/l1NgAx




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