giovedì 10 marzo 2016

L'IMPATTO ambientale del CIBO

L'impatto ambientale dell'industria dei cibi animali designa il complesso degli effetti che la zootecnia e la pesca commerciale determinano sull'ambiente naturale. Nella seconda metà del Novecento il consumo globale di carne è aumentato di 5 volte, passando da 45 milioni di tonnellate all'anno nel 1950 a 233 milioni di tonnellate all'anno nel 2000[1][2], e la FAO ha stimato che entro il 2050 si arriverà a 465 milioni di tonnellate[3]. Ciò ha causato naturalmente un aumento del numero di animali allevati: secondo le statistiche della FAO (2007), in tutto il mondo ogni anno vengono macellati circa 56 miliardi di animali, esclusi pesci e altri animali marini[4]. Questa crescita esplosiva della popolazione animale domestica si è rivelata incompatibile con i ritmi naturali terrestri e ha inciso attraverso diversi modi sull'equilibrio della Terra[5].
La zootecnia globale è ritenuta un fattore centrale nell'uso di risorse alimentari e idriche, inquinamento delle acque, uso delle terre, deforestazione, degradazione del suolo ed emissioni di gas serra[3]. Nonostante spesso sia un fattore trascurato, anche il consumo degli animali marini incide in maniera significativa sull’equilibrio ambientale, e la pesca e l'acquacoltura sono ritenuti anch'essi responsabili di diversi problemi di natura ambientale[3]. L'insieme di questa situazione si ripercuote anche sulla fauna e sulla flora selvatica impoverendone la biodiversità[3]. Si è determinato un crescente interesse della comunità scientifica sull'influenza che il consumo di cibi animali può avere sull'ambiente, e diversi autori hanno indicato come la riduzione del consumo di carne debba considerarsi una necessità per contrastare i gravi effetti avversi della produzione zootecnica[6][7][8][2][9][10][11]. Diversi studi hanno inoltre evidenziato i vantaggi che è possibile ottenere sul piano ambientale con l'adozione di diete vegetariane[12][13][14][15] e in particolare di una dieta vegana[16][17][18]. Nonostante l'evidenza scientifica sull'impatto ambientale provocato dall'allevamento degli animali e la maggiore attenzione al problema negli anni più recenti, molte persone ignorano o minimizzano questo aspetto centrale della crisi ambientale attuale. Frequentemente vengono proposte delle soluzioni per aggirare il problema del consumo di cibi animali che, se non comportano anche una drastica riduzione di questo consumo, si rivelano però poco efficaci, come l'acquisto di prodotti da allevamento biologico[16][18] o di cibo a chilometro zero[19]. Consumo di cibi animali e animali allevati Nella seconda metà del Novecento il consumo di carne pro capite in tutto il mondo è più che raddoppiato, insieme alla crescita della popolazione, passata da 2,7 a oltre 6 miliardi di persone: di conseguenza, il consumo globale di carne è aumentato di 5 volte, passando da 45 milioni di tonnellate all'anno nel 1950 a 233 milioni di tonnellate all'anno nel 2000[1][21]. Nei paesi industrializzati mediamente si consumano 224 grammi di carne pro capite al giorno[6] (circa 80 kg l'anno a persona). E il consumo globale di carne continua a crescere rapidamente: solo dal 2007 al 2008 si è passati da 275 a 280 milioni di tonnellate di carne prodotta in tutto il mondo[22], e la FAO ha stimato che entro il 2050 si arriverà a 465 milioni di tonnellate[3]. Anche la produzione di latte, secondo le previsioni, è destinata a crescere velocemente, passando da 580 milioni di tonnellate del biennio 1999-2001 a 1043 milioni di tonnellate entro il 2050[3]. Il consumo di prodotti animali va crescendo con particolare rapidità nei paesi in via di sviluppo, parallelamente alla crescita economica: la carne infatti rappresenta per queste popolazioni un modello occidentale da imitare, uno status symbol, un segno di prestigio e ricchezza sociale. In queste regioni, dal 1983 il consumo di carne è più che raddoppiato, passando dai 14 kg di carne pro capite annui[23] agli attuali 30 kg[22]. In Cina il consumo di carne è passato dai 13 kg pro capite del 1980 ai 53 kg pro capite del 2004[24], con un aumento di oltre il 300% in poco più di 20 anni, ed è stato calcolato che, con l'attuale tendenza, nel 2031 il cinese medio potrà arrivare a consumare la stessa quantità di carne di un nordamericano del 2015, con un consumo annuo nazionale che raggiungerà i 181 milioni di tonnellate, corrispondenti a circa quattro quinti dell'attuale produzione mondiale di carne[25]. Anche il consumo di latte in questi paesi è aumentato notevolmente, passando in soli 10 anni (dal 1983 al 1993) da 35 kg pro capite a 40 kg pro capite, ed entro il 2020 è stimata una crescita fino a 62 kg pro capite[23]. Il notevole incremento del consumo di carne e di altri cibi di origine animale ha causato naturalmente un aumento del numero di animali allevati: secondo le statistiche della FAO (2007), in tutto il mondo ogni anno vengono uccisi, per fini alimentari, circa 56 miliardi di animali, esclusi pesci e altri animali marini[4]. Impatto sulle risorse alimentari Gli animali allevati, per svilupparsi, vivere, crescere e produrre, naturalmente hanno bisogno di nutrirsi. Le risorse alimentari consumate da questi animali sono però maggiori di quante essi ne producano sotto forma di carne, latte e uova destinati al mercato: gli allevamenti, così come li ha definiti l'economista Frances Moore Lappé in Diet for a small planet, sono "fabbriche di proteine alla rovescia". La quantità di cibo assunta da un organismo animale non produce direttamente un'analoga quantità di massa corporea: infatti, solo una parte del cibo ingerito viene usata dall'organismo per la crescita della sua struttura corporea, mentre il resto viene bruciato come energia per il processo di conversione, per il mantenimento delle normali funzioni vitali e per lo svolgimento delle attività quotidiane, oppure viene espulso. In zootecnia il rapporto tra cibo ingerito e crescita dell'organismo è noto come indice di conversione alimentare, che misura la quantità di mangime, espressa in chilogrammi, necessaria per l'accrescimento di un chilogrammo di peso vivo dell'animale. Ad esempio, in un manzo, l'indice di conversione va da 7 a 10[26]: questo vuol dire che per crescere di un chilogrammo di peso corporeo, ad un manzo occorrono da 7 a 10 kg di mangime, solitamente costituito da cereali e leguminose[senza fonte]. Un manzo, che normalmente alla nascita pesa intorno ai 50 kg[27], nel momento in cui avrà raggiunto il peso di 600 kg[28] e sarà pronto per la macellazione, avrà consumato circa 4000-5000 kg di mangime. Per gli altri animali allevati l'indice di conversione è differente rispetto a quello del manzo, ma comunque sempre con un rapporto cibo ingerito - crescita dell'organismo svantaggioso. Il sistema di allevamento usato influisce notevolmente sull'indice di conversione dell'animale: in animali allevati in sistemi intensivi è possibile ottenere un indice di conversione di gran lunga vantaggioso (di circa 3-4 volte) rispetto ad animali allevati con metodi estensivi[29]. Inoltre, quando l'animale viene ucciso, eviscerato e lavorato, il suo peso utile si riduce ulteriormente. Ad esempio, è stato calcolato che in alcune delle più diffuse specie allevate (manzo, maiale e agnello) lo scarto (testa, ossa, viscere e altri tessuti e organi non commestibili) dopo la macellazione varia dal 54 al 74%[30]. Un altro fattore da considerare è la resa del taglio, ovvero la quantità finale di carne disponibile per la vendita che si ottiene dopo il taglio. Tenendo conto dell'insieme di queste perdite, il peso del prodotto finale può arrivare anche ad essere meno della metà del peso dell'animale vivo: ad esempio, da un manzo di 600 kg si ricava una quantità di carne pronta per la vendita che varia da un minimo di 175 kg e un massimo di 310 kg, per un maiale di 110 kg si va da un minimo di 41 kg a un massimo di 68 kg, mentre per un vitello di 55 kg si va da un minimo di 17 kg a un massimo di 24 kg[30]. Il risultato complessivo di queste perdite è un rapporto tra quantità di mangime consumato dall'animale e prodotto finale distribuito estremamente svantaggioso: se per ottenere un chilogrammo di peso vivo un manzo deve consumare una quantità di mangime di 7-10 kg, per ottenere un chilo di carne di manzo per il mercato occorrono, nella migliore delle ipotesi, due chili di animale vivo, che corrispondono a 14-20 kg di mangime consumato. Consumo di risorse alimentari La produzione di cibi di origine animale e in particolare di carne richiede pertanto un vasto uso di risorse alimentari. Un terzo della produzione mondiale di cereali - 745 milioni di tonnellate nel 2007[31] - viene consumata dagli animali allevati[3]. Negli USA e in Europa oltre la metà dei cereali sono consumati dagli animali allevati (rispettivamente il 59% e il 56%), mentre in Asia e in Africa solo meno di un quarto dei cereali prodotti sono usati come mangime (rispettivamente il 22% e il 13%), la maggior parte viene impiegata per il consumo umano[31]. Il mais è il principale cereale utilizzato negli allevamenti: circa il 60% della produzione globale viene usata come mangime[31]. Nel 2007 463 milioni di tonnellate di mais su un totale di 787 milioni di tonnellate sono stati usati come mangime, mentre solo 110 milioni di tonnellate sono stati impiegati per l'alimentazione umana diretta[31]. Per quanto riguarda la soia, l'altro principale componente dei mangimi moderni, oltre il 70% della produzione mondiale è usata negli allevamenti[32]. Anche se i ruminanti (bovini, ovini e caprini) hanno un indice di conversione ridotto rispetto ai non-ruminanti (polli e maiali), tuttavia sono questi ultimi i principali responsabili del consumo di mangimi concentrati. La quota maggiore di mangimi concentrati consumati spetta ai polli, con il 30% (dei quali tre quinti per polli broiler e due quinti per galline ovaiole), seguono poi i maiali, con una quota di poco inferiore (29%), le mucche da latte (25%) e i manzi da carne (14%)[33]. Inefficienza alimentare Lo svantaggioso indice di conversione alimentare alla base del sistema zootecnico determina l'inadeguatezza ecologica di una dieta basata sulle proteine animali. Frances Moore Lappè ha osservato come negli USA, nel 1979, al bestiame siano state somministrate 145 milioni di tonnellate di cereali e soia, e di queste solo 21 milioni sono tornate ad essere disponibili per l'alimentazione umana sotto forma di carne e uova: «il resto, equivalente a circa 124 milioni di tonnellate di cereali e soia, è stato sottratto al consumo umano». Lappè ha calcolato che se queste 124 milioni di tonnellate di cereali e soia fossero state convertite per l'alimentazione umana, avrebbero fornito «l'equivalente di una ciotola di cibo per ogni essere umano del pianeta per un intero anno»[34]. È stato stimato che un ettaro coltivato a patate e un ettaro coltivato a riso sono in grado di provvedere al nutrimento annuo rispettivamente di 22 e 19 persone, mentre un ettaro destinato alla produzione di manzo è sufficiente per il nutrimento annuo di una sola persona[35]. L'evidenza dimostra che il modo più efficiente per garantire il sufficiente apporto proteico alla popolazione umana mondiale consiste nel consumo diretto dei vegetali e, in effetti, i cibi vegetali rappresentano la principale fonte proteica a livello globale[senza fonte]. Negli USA ogni anno 41 milioni di tonnellate di proteine vegetali vengono consumate dagli animali allevati per la produzione di sole 7 milioni di tonnellate di proteine animali da destinare al consumo umano: per ogni chilogrammo di proteine animali prodotte, occorrono circa 6 chilogrammi di proteine vegetali[36]. A causa di questo svantaggioso rapporto di conversione proteica, la produzione di proteine dalla carne necessita da 6 a 17 volte più terra rispetto all'equivalente quantitativo di proteine fornite dai vegetali[37]: un ettaro coltivato a cereali fornisce cinque volte più proteine di un ettaro destinato alla produzione di carne, i legumi ne forniscono dieci volte di più, i vegetali a foglia quindici volte di più e gli spinaci ventisei volte di più[38].
Impatto sulle risorse idriche
Consumo di risorse idriche Oltre ad un consumo eccessivo di risorse alimentari, l’allevamento è causa anche di uno smodato impiego di risorse idriche. Una parte dell’acqua richiesta dal sistema zootecnico moderno è impiegata per abbeverare gli animali: un manzo può consumare fino a oltre 80 litri di acqua al giorno, un maiale oltre 20 litri e una pecora circa 10 litri[40], e una mucca da latte, durante la stagione estiva, può arrivare addirittura fino a 200 litri di acqua consumata in un solo giorno[41]. Altra acqua viene poi usata per la pulizia delle strutture di allevamento e degli animali, per i sistemi di raffreddamento e per lo smaltimento dei rifiuti. In alcuni paesi i consumi per l'abbeveramento degli animali e la manutenzione delle strutture è significativa: ad esempio in Botswana l'uso dell'acqua per l'allevamento è pari al 23% dell'uso totale delle risorse idriche nazionali e rappresenta il secondo principale fattore di consumo dell'acqua del paese[3]. Altra acqua viene poi usata nel processo di macellazione degli animali e per la pulizia degli impianti di macellazione: ad esempio è stato calcolato che per ogni pollo macellato occorrono 1590 litri di acqua[42]. Tuttavia, gran parte dell'acqua (il 98%[33]) necessaria alla produzione dei cibi animali è usata naturalmente per la coltivazione del foraggio: a tale scopo, su scala globale, vengono impiegati oltre 2300 miliardi di metri cubi d'acqua l'anno[43]. L'impronta idrica (ovvero il volume totale di acqua dolce impiegata per produrre un prodotto) della produzione globale dei prodotti animali nelle diverse fasi produttive - dall'irrigazione del foraggio all'allevamento dell'animale fino alla preparazione del prodotto finito - è stata stimata, nel periodo 1996-2005, in 2422 miliardi di metri cubi l'anno[33], una quota che rappresenta circa un quarto dell'impronta idrica globale[44]. Un terzo del consumo d'acqua è dovuto all'allevamento dei manzi, e quasi un quinto al settore della produzione di latte[33]. Anche in questo caso, il sistema di allevamento usato influisce significativamente sul volume d'acqua necessario: generalmente, i prodotti da allevamento intensivo richiedono un consumo idrico minore rispetto a quelli da allevamenti estensivi (ad eccezione dei prodotti lattiero-caseari, dove c'è poca differenza)[33]. È stato calcolato che l'impronta idrica di un chilogrammo di carne di pollo è di 4330 litri di acqua, 5990 per un chilo di carne di maiale, e 10 400 per un chilo di carne di pecora[39]. Per un chilo di carne di manzo occorrono 15 400 litri di acqua[39] o, secondo altre stime, ben 100 000, se l'allevamento è intensivo, e addirittura 200 000 se l'allevamento è estensivo[45], un volume di acqua quest'ultimo sufficiente a soddisfare i consumi domestici complessivi di una famiglia europea di quattro persone per sei mesi, o di una famiglia del Bangladesh di quattro persone per quasi tre anni[46]. Per un solo uovo sono necessari circa 200 litri di acqua, 1020 per un solo litro di latte e 5060 per un chilo di formaggio[39]. A confronto, la produzione di cibi vegetali richiede una quantità di acqua decisamente più ridotta: per un chilogrammo di riso, la coltura a più alta richiesta idrica, occorrono 2500 litri di acqua; per un chilo di soia ne bastano 2145, 1827 per un chilo di grano, 1220 per un chilo di mais e 290 per un chilo di patate[39]. Secondo l'UNESCO-IHE Institute for Water Education, «considerando il consumo di risorse d'acqua dolce, si dimostra più efficiente ottenere calorie, proteine e grassi dai prodotti vegetali rispetto ai prodotti animali[33]». In confronto, per una caloria da cibi animali occorre una quantità di acqua 8 volte superiore a quella necessaria per una caloria da cibi vegetali[47] e fino a 20 volte superiore per carne di manzo[33]. Per un grammo di proteine da carne bovina occorre una quantità di acqua 6 volte superiore a quella necessaria per un grammo di proteine da legumi, e per latte e uova ne occorre una quantità 1,5 volte superiore[33]. Per un grammo di grasso, tutti i prodotti animali ad eccezione del burro hanno un'impronta idrica di gran lunga maggiore rispetto alle colture oleaginose[33]. Inquinamento delle risorse idriche Come affermato dalla FAO, «l'evidenza suggerisce che il settore dell'allevamento è la più importante fonte di inquinanti delle acque, principalmente deiezioni animali, antibiotici, ormoni, sostanze chimiche delle concerie, fertilizzanti e fitofarmaci usati per le colture foraggere e sedimenti dai pascoli erosi[48]». Inquinamento idrico derivante dalla zootecnia estensiva I sedimenti prodotti dai pascoli erosi rappresentano un'importante fonte di inquinamento delle acque[In che senso si afferma che i sedimenti inquinano le acque?]: ad esempio, negli Stati Uniti circa il 55% dell'erosione è attribuibile al pascolo del bestiame[3]. Inoltre, nei sistemi di allevamento estensivo la contaminazione delle acque di superficie si verifica anche tramite la deposizione diretta delle feci nei corsi d'acqua oppure tramite il deflusso nel sottosuolo quando la deposizione fecale avviene sul terreno[3]. Un'altra fonte di inquinamento è rappresentata dalle deiezioni applicate sui terreni come concime[3].[Il problema sussiste anche in riferimento alla zootecnia estensiva? Poco sotto si afferma che le deiezioni degli animali allevati in vaste aree rurali costituivano un'importante risorsa per la concimazione del terreno] Inquinamento idrico derivante dalla zootecnia intensiva L'inquinamento idrico prodotto dalla zootecnia industriale è molto più acuto e visibile di quello dovuto alla zootecnia tradizionale, specialmente quando si sviluppa in prossimità delle aree urbane e determina pertanto un impatto diretto sul benessere umano. Essendo inoltre più facile da controllare, riceve in genere una maggiore attenzione dalle politiche ambientali[3]. Fino a quando la più ridotta popolazione degli animali allevati poteva essere accolta su vaste aree rurali, le deiezioni animali rappresentavano un'importante risorsa per la concimazione del terreno. Ma a seguito della crescita esponenziale del numero di animali allevati parallelamente all'espansione delle aree urbane, si sono diffusi sempre più gli allevamenti intensivi, responsabili di una sovrabbondante produzione di deiezioni animali dovuta all'elevato numero di animali concentrato in uno spazio ridotto. In questa nuova condizione il territorio circostante lo stabilimento non è più in grado di assorbire efficacemente l'enorme quantità delle deiezioni prodotte, cariche di contaminanti ambientali che finiscono per depositarsi nella acque di superficie e nelle falde acquifere, con gravi effetti per l'ecosistema, la vita animale e vegetale e la salute umana. Si stima che un unico manzo produca in un solo giorno oltre 20 chilogrammi di sterco, e un allevamento medio, con 10 000 capi, può produrre fino a un totale di 200 tonnellate di sterco al giorno[49]. Secondo il Worldwatch Institute, solo in Cina vengono prodotte ogni anno 2,7 miliardi di tonnellate di deiezioni animali, una quantità pari a 3,4 volte la quantità di rifiuti solidi prodotti dall'intera popolazione cinese[24]. I mangimi usati sono ricchi di nutrienti quali azoto e fosforo, che solo in parte vengono assorbiti dagli animali, la maggior parte finisce per disperdersi nell'ambiente. Ad esempio, una mucca da latte ingerisce fino a 163,7 kg di azoto e 22,6 kg di fosforo in un anno, di cui 129,6 kg di azoto (79% del totale ingerito) e 16,7 kg di fosforo (73%) vengono espulsi con le feci[50]. Azoto e fosforo raggiungono la maggiore concentrazione rispettivamente nel letame dei suini (76,2 g di azoto su chilogrammo di peso secco) e nel letame delle galline ovaiole (20,8 g di fosforo su chilogrammo di peso secco)[51]. Secondo stime della FAO, a livello globale, gli allevamenti sono responsabili di 135 milioni di tonnellate di azoto e 58 milioni di tonnellate di fosforo depositate nell'ambiente ogni anno[3]. Negli Stati Uniti il settore zootecnico è responsabile per circa il 32% e il 33% rispettivamente dei carichi di azoto e fosforo nelle risorse d'acqua dolce, e in altri paesi tale contributo è maggiore, ad esempio in China-Guangdong si arriva a valori del 72% di azoto e 94% di fosforo[3]. Un'eccessiva concentrazione di questi nutrienti nelle acque determina iperstimolazione delle piante acquatiche e delle alghe e conseguente eutrofizzazione, produce sapori e odori sgradevoli e favorisce un'eccessiva crescita batterica e la propagazione di microrganismi nei sistemi di distribuzione con rischi per la salute umana[3]. I mangimi inoltre possono contenere metalli pesanti quali rame, zinco, selenio, cobalto, arsenico, ferro e manganese (somministrate al bestiame per ragioni di salute o come promotori della crescita), che vengono assorbiti dagli animali solo dal 5 al 15%, la maggior parte viene espulsa con le feci depositandosi nell'ambiente[3]. Ad esempio, il 37% dello zinco e il 40% del rame distribuito sulle terre agricole in Inghilterra e nel Galles proviene dal settore zootecnico[3]. I residui farmacologici rappresentano un altro importante rischio. Negli allevamenti odierni l'uso di antibiotici e ormoni è molto diffuso, per motivi terapeutici ma più spesso per motivi non terapeutici quali profilassi delle malattie e incremento della crescita o della produzione dell'animale[52]. Nei paesi sviluppati i farmaci usati nella zootecnia rappresentano una quota elevata del totale nazionale, ad esempio negli USA oltre il 70% degli antibiotici usati sono somministrati agli animali allevati[53]. Una parte sostanziale dei farmaci somministrati non viene assorbita dall'animale e si disperde nelle acque tramite lo scarico dei reflui o l'uso del concime sui terreni[3]. La contaminazione delle acque con agenti antimicrobici provoca un antibiotico-resistenza nei batteri, mentre la presenza di sostanze ormonali disciolte può avere effetti sulle colture e può provocare alterazioni del sistema endocrino negli esseri umani e negli animali selvatici[3]. La zootecnia è inoltre responsabile della dispersione nelle acque di altre sostanze di uso sanitario, quali ad esempio detergenti, disinfettanti o antiparassitari[51][54]. Gli escrementi animali sono ricchi anche di una varietà di contaminanti biologici di natura batterica e virale, che possono sopravvivere per giorni o in alcuni casi anche per settimane nelle feci scaricate sui terreni e successivamente possono contaminare le risorse d'acqua attraverso il deflusso[3]. I più importanti e diffusi patogeni di rilevanza per la salute umana e la sanità veterinaria pubblica rintracciabili negli scarichi zootecnici sono: Campylobacter, Escherichia coli, Salmonella, Clostridium botulinum, Giardia lamblia, Cryptosporidium, Microsporidia, Fasciola hepatica e altri agenti responsabili di malattie virali (quali infezioni da Picornavirus, da Parvovirus, da Adenovirus, peste bovina, febbre suina) e parassitarie[3].

Inquinamento idrico derivante dalla produzione di mangime Secondo la FAO, «la produzione di mangime e foraggio, l'applicazione del concime sulle colture, e l'occupazione delle terre dei sistemi estensivi, sono tra i principali fattori responsabili degli insostenibili carichi di nutrienti, fitofarmaci e sedimenti nelle risorse d'acqua del pianeta[3]». L'elevata richiesta di mangime per la produzione zootecnica esige un considerevole uso di composti chimici di sintesi, che possono contaminare le risorse idriche dopo essere stati applicati sul terreno. Ad esempio, negli Stati Uniti, il volume di erbicidi (che negli USA rappresentano la più ampia categoria di fitofarmaci) usati nel 2001 per mais e soia destinati alla zootecnia raggiungeva le 74 600 tonnellate, corrispondente al 70% del totale di erbicidi usati in agricoltura[3]. E anche se negli Stati Uniti l'uso totale di fitofarmaci per la produzione di mangime è diminuito nel corso degli anni (passando dal 47% del 1991 al 37% del 2001), la produzione zootecnica rimane comunque uno dei principali contributori d'uso. E, secondo la FAO, la produzione zootecnica gioca un ruolo ugualmente importante nell'utilizzo dei fitofarmaci anche negli altri principali paesi produttori di mangime, inclusi Argentina, Brasile, Cina, India e Paraguay[3]. Inquinamento idrico derivante dall'industria di trasformazione I caseifici e gli impianti di macellazione e lavorazione delle carni sono potenzialmente in grado di inquinare la falda idrica o i corsi d'acqua, soprattutto se non dispongono di impianti per il trattamento delle acque reflue[3]. Uso delle terre, deforestazione e degradazione del suolo Secondo la FAO, «il settore dell'allevamento rappresenta, a livello mondiale, il maggiore fattore d'uso antropico delle terre»: direttamente e indirettamente, la moderna zootecnia complessivamente utilizza il 30% dell'intera superficie terrestre non ricoperta dai ghiacci e il 70% di tutte le terre agricole[3]. Per lo più le terre vengono usate per il pascolo degli animali: quasi il 29% della superficie degli Stati Uniti[55], oltre il 40% del territorio della Cina (più di 4 milioni di chilometri quadrati[56]) e più del 50% della regione orientale del continente africano[57], sono occupati da pascoli. La produttività dei prati a pascolo è molto variabile: un ettaro di prateria molto ricca può sostenere un manzo per un anno, ma possono essere necessari anche 20 ettari se si tratta di prateria marginale[58]. Un altro importante fattore d'uso delle terre è la produzione di mangime: il 33% delle terre arabili del pianeta è usato a tale scopo[3]. Deforestazione Nella seconda metà del XX secolo, la considerevole crescita dell'allevamento animale ha determinato un significativo fenomeno di deforestazione, soprattutto in America Latina. In America centrale, fra gli anni sessanta e gli ottanta il numero di capi bovini allevati crebbe dell'80% e la produzione di carne bovina del 170%, prevalentemente a scopo di esportazione[59]. Nello stesso periodo, oltre un quarto delle foreste furono rase al suolo per fare posto a pascoli[60]. Il fenomeno fu particolarmente esacerbato in Honduras e Nicaragua.[59][61][62]. La minaccia dell'allevamento è particolarmente grave nella foresta amazzonica. In questa regione l'allevamento di bovini è la causa primaria di deforestazione almeno fin dagli anni 1970[63], e nel 2006 la FAO ha stimato che, complessivamente, il 70% delle terre deforestate dell'Amazzonia è stato trasformato in pascoli bovini e la produzione di mangime occupa gran parte del restante 30%[3] (secondo altre stime il bestiame occuperebbe invece fino all'80% delle aree deforestate[63]). Inizialmente e fino agli anni del 1990, la deforestazione della regione amazzonica avveniva per lo più a causa della forte richiesta di carne del mercato brasiliano, che dal 1972 al 1997 è cresciuto di ben quattro volte[64]. In questo periodo, l'esportazione della carne dal Brasile verso il mercato internazionale era limitata: nel 1995, il Brasile esportava meno di 500 milioni di dollari di carne bovina[64]. Tuttavia, appena otto anni dopo, nel 2003, l'esportazione aumenta del 300%, arrivando a 1,5 miliardi di dollari[64]. Il volume delle esportazioni invece aumenta di oltre cinque volte tra il 1997 e il 2005, passando da 232 000 tonnellate a 1,2 milioni di tonnellate di peso equivalente in carcassa[64], e nel 2008, appena tre anni dopo, arriva ad essere quasi sei volte maggiore[65]. Solo in Europa, tra il 1990 e il 2001 la percentuale di carne importata dal Brasile è quasi raddoppiata, passando dal 40% al 74%[63]. Il Brasile è considerato il principale esportatore mondiale di carne bovina, e per il 2018 il governo brasiliano prevede un raddoppio della quota del Brasile nel commercio globale di carne bovina, con due tonnellate su tre di provenienza dal mercato brasiliano[65]. Le terre dell'Amazzonia rappresentano un'interessante regione per sopperire all'insufficienza di terreni disponibili nel pianeta a fronte della crescita della produzione zootecnica mondiale[66] e la forte espansione del mercato brasiliano della carne bovina è stata resa possibile da una combinazione di diversi fattori. In primo luogo la svalutazione della valuta nazionale del Brasile ha determinato una riduzione del prezzo della carne bovina, rendendo l'esportazione brasiliana molto competitiva sui mercati internazionali. In secondo luogo, in molte aree del Brasile è stata debellata l'afta epizootica – precedentemente molto diffusa in queste regioni – rendendo possibile l'ingresso in molti nuovi mercati in Europa, Russia e Medio Oriente, inoltre la contemporanea diffusione della BSE nel Canada e negli Stati Uniti e dell'influenza aviaria in Asia ha ulteriormente favorito l'espansione del mercato brasiliano. Questi cambiamenti hanno anche favorito dinamiche già esistenti da tempo in Amazzonia che anche giocano un ruolo importante nella distruzione delle foreste, quali la rapida espansione delle infrastrutture stradali e delle reti elettriche, i forti investimenti in moderni impianti di macellazione, di confezionamento della carne e di produzione lattiero-casearia e i bassi prezzi delle terre forestali che rendono la creazione di pascoli molto conveniente[64]. L'allevamento di bovini nella regione amazzonica è considerato il principale fattore di deforestazione del mondo: è stato stimato che a causa dell'allevamento di bestiame è stato perso in media un ettaro di foresta amazzonica ogni otto secondi[65]. In soli tredici anni, dal 1996 al 2009, 100 000 chilometri quadrati di foresta sono stati trasformati in terra da pascolo e, complessivamente, un'area di 550 000 chilometri quadrati, pari alla superficie della Francia, è occupata da mandrie bovine[63]. Tra il 1990 e il 2003 nell'Amazzonia brasiliana la popolazione bovina è più che raddoppiata, passando da 26,6 a 64 milioni di capi[63]: il Brasile è considerato il paese con il maggior numero di capi bovini[65]. La maggior parte di questa crescita è avvenuta negli stati del Mato Grosso, Pará e Rondônia, che nello stesso periodo hanno infatti registrato anche i tassi più alti di deforestazione[64]. Anche se molte persone, a causa di campagne ecologiste scriteriate, credono che la causa principale della devastazione delle foreste sia il taglio di legname, in realtà questa attività non causa deforestazione, ma solo degradazione dell'ambiente[64]: ad esempio, nella foresta amazzonica il taglio di legname legale e illegale è responsabile solo di un 2-3% della deforestazione totale[63]. I terreni forestali da destinare al pascolo vengono invece letteralmente devastati e rasi al suolo con l'uso di enormi bulldozer o dando il tutto alle fiamme. Poiché la terra liberata dalla foresta non è però adatta al pascolo, in quanto estremamente fragile e scarsamente nutrita, dopo pochi anni di pascolo il suolo diventa sterile e gli allevatori devono abbattere un'altra sezione di foresta per spostarvi le mandrie, lasciandosi dietro vaste distese di terre desolate. La geografa Susanna Hecth riferisce che il 90% dei nuovi allevamenti di bestiame nel bacino amazzonico sospende l'attività entro otto anni dall'avvio[67]. Degradazione del suolo Il settore dell'allevamento ha un sostanziale impatto anche nella degradazione del suolo, soprattutto a causa del sovrasfruttamento dei pascoli[3]: la continua pressione dello zoccolo provoca compattamento del terreno, mentre l'estirpazione della vegetazione effettuata dall'animale per nutrirsi provoca impoverimento della flora. Il compattamento del terreno diminuisce la capacità della terra di trattenere acqua e di rigenerarsi, mentre l'impoverimento della flora compromette la resistenza del suolo non più trattenuta dalle radici e riduce funzioni essenziali svolte dai sistemi vegetali quali l'assorbimento dell'acqua e il riciclo degli elementi nutritivi: la terra finisce così per essere sempre più esposta all'erosione del vento e dell'acqua e destinata all'isterilimento agricolo. Secondo la FAO, il 20% dei pascoli del pianeta si trova in qualche misura in una condizione di degradazione, e particolarmente colpiti risultano gli ambienti aridi e semi-aridi dell'Africa e dell'Asia, nonché le zone semi umide dell'America Latina[3]. In Cina circa il 90% dei pascoli naturali - che rappresentano oltre il 40% del territorio del paese - è soggetto ad un certo livello di degradazione[68], responsabile di un'intensificazione delle tempeste di sabbia che flagellano la Cina settentrionale durante il periodo primaverile, al punto che il governo cinese è costretto ad emanare occasionalmente il divieto di pascolo in tutto il paese[69]. Parallelamente, anche l'espansione della coltivazione di mangimi negli ecosistemi naturali crea problemi di degradazione del territorio[3]. Già negli anni del 1980 il matematico Robin Hur ha stimato che, ogni anno, fra 6 e 7 miliardi di tonnellate di massa erosa siano attribuibili direttamente al pascolo del bestiame e alla coltivazione per alimentazione animale[70]. Il sovrasfruttamento dei pascoli e la coltivazione intensiva, insieme all'uso smodato di acqua e alla distruzione delle foreste (entrambi fattori anch'essi strettamente collegati all'allevamento di animali) rappresentano anche i principali responsabili di desertificazione delle terre. Emissioni di gas serra Il complesso dell'allevamento mondiale è anche uno dei principali contributori della produzione di gas serra, responsabili dell'aumento delle temperature medie terrestri, fenomeno meglio noto come riscaldamento globale. Nel 2006 la FAO ha stimato che i processi coinvolti nell'allevamento di animali generano una produzione di gas serra equivalente al 18% delle emissioni globali prodotte dalle attività umane[3], una quota questa superiore a quella relativa all’intero settore dei trasporti (stradali, aerei, navali e ferroviari), responsabile del 13,5% di gas nocivi[71]. Successivamente, nel 2009, un'analisi critica del rapporto della FAO tramite la riclassificazione di alcune voci, la correzione di stime e il conteggio di elementi inediti, pubblicata dal Worldwatch Institute, ha concluso che il totale delle emissioni di gas serra attribuibili al settore zootecnico sarebbe maggiore del 18% e rappresenterebbe una quota pari o superiore al 51% delle emissioni totali[72]. Secondo il rapporto della FAO, nonostante l'allevamento di animali contribuisca solo limitatamente alla produzione di anidride carbonica (CO2) (il principale gas a effetto serra prodotto dall'uomo) con un 9% del totale, è tuttavia responsabile di alte emissioni di altri importanti gas serra: il 35-40% delle emissioni di metano, che ha un effetto 23 volte superiore a quello dell'anidride carbonica come fattore di riscaldamento del globo, il 65% delle emissioni di ossido di diazoto, un gas che è 296 volte più dannoso della CO2, e il 64% delle emissioni di ammoniaca, un gas che contribuisce significativamente alle piogge acide e all'acidificazione degli ecosistemi, sono prodotti infatti dal settore zootecnico[3]. Sempre secondo la FAO, nella quota calcolata del 18% di emissioni di gas serra attribuite al settore zootecnico, il contributo maggiore proviene dagli allevamenti estensivi (13%), mentre una quota più ridotta (5%) è attribuibile ai sistemi intensivi[73]. È stato stimato che in sistemi CAFO (Confined Animal Feeding Operations) (sistemi di allevamento intensivo a ridotte emissioni di gas serra) la produzione di 225 g di carne di manzo produce emissioni CO2 equivalenti pari a quelle generate da un viaggio in auto di 15,8 km, 4,1 km per la stessa quantità di carne di maiale e 1,17 km per la stessa quantità di carne di pollo, mentre 225 g di asparagi (tra i vegetali a più alto impatto nella produzione di gas serra) corrispondono a guidare un'auto per 440 metri e 225 g di patate corrispondono a guidare un'auto per 300 metri[74]. Secondo calcoli della FAO la produzione di un solo chilo di latte comporta una emissione di 2,4 kg di CO2 equivalenti[75]. Un altro studio ha stimato che la produzione di un chilogrammo di manzo causa una emissione di gas serra e altri inquinanti maggiore di quella che si ottiene guidando un'auto per tre ore e lasciando nel frattempo accese tutte le luci di casa[76]. Fonti di gas serra nella produzione zootecnica Vi sono diversi fattori responsabili della generazione di gas serra implicati nella produzione zootecnica. Il metano originato dal processo digestivo e prodotto dalle flatulenze e dalle deiezioni degli animali allevati rappresenta il fattore principale, contribuendo per il 55% del totale delle emissioni prodotte nel settore zootecnico[6]. Un’altra importante causa di emissione di gas nocivi collegata all'allevamento è la distruzione delle foreste: la deforestazione e la desertificazione provocate dall'industria zootecnia contribuiscono per il 35% del totale delle emissioni prodotte nel settore dell'allevamento[6]. Le piante assorbono e convertono CO2 nel processo di fotosintesi clorofilliana: quando muoiono, o quando vengono abbattute o bruciate, rilasciano nell’atmosfera il carbonio accumulato anche nel corso di centinaia di anni. La sola foresta amazzonica contiene, nei propri alberi, circa 75 miliardi di tonnellate di carbonio[77]: quando gli alberi vengono abbattuti e bruciati per fare posto al pascolo o alle coltivazioni ad uso zootecnico, emettono nell'atmosfera elevate quantità di CO2. Vi sono infine altri fattori responsabili in proporzioni minori delle emissioni di gas nocivi. Il moderno settore agricolo-zootecnico è altamente meccanizzato e consuma elevati quantitativi di energia (per la maggior parte durante la produzione e il trasporto dei mangimi), la cui generazione necessita l'uso di combustibili ad alto contenuto di carbonio, che quando bruciati emettono anidride carbonica o altri gas serra. È stato stimato che la produzione di proteine animali richiede un consumo di energia da 2,5 a 50 volte superiore rispetto alla produzione di proteine vegetali[78]. Inoltre, il vasto impiego di fertilizzanti petrolchimici per le coltivazioni intensive ad uso zootecnico è causa dell'emissione di ossido di azoto, ossido di diazoto e ammoniaca[3]. Pesca e acquacoltura Nonostante spesso sia un fattore trascurato, anche il consumo degli animali marini incide in maniera significativa sull’equilibrio ambientale. Il consumo globale di pesce è cresciuto costantemente a partire dalla seconda metà del Novecento, passando da 9,9 kg pro capite annui nel 1960 a 11,5 kg nel 1970, 12,6 kg nel 1980, 14,4 kg nel 1990, 17 kg nel 2000, fino ad arrivare a 18,4 kg nel 2009, una quota quasi doppia rispetto al 1960, per un totale di 125,6 milioni di tonnellate di pesce consumate in un anno in tutto il mondo[79]. Pesca La pesca marittima è considerata il principale fattore antropogenico di impatto sugli ecosistemi marini di tutto il mondo[80][81], e lo sfruttamento intensivo operato nel corso dei decenni dall'industria della pesca rappresenta, insieme all'inquinamento dei mari, la principale causa di devastazione della vita marina. Dal 1950 al 2006 il 29% delle specie marine commerciali è collassata (ovvero ha subito una perdita del 90% o oltre), il numero di zone di pesca giunte al collasso è cresciuto grandemente[82][83], e per il 2050 alcuni ricercatori hanno previsto un collasso definitivo di tutte le specie commerciali[82]. La pesca è inoltre responsabile del fenomeno delle catture accidentali, ovvero la cattura di esemplari marini non commerciabili che rimangono intrappolati nelle reti usate e poi scartati e gettati in mare morti o morenti. Il tasso di mortalità legato alle catture accidentali è tale che in alcuni casi può avere ripercussioni sull'ecosistema marino stravolgendo l'equilibrio delle popolazioni ittiche e dell'ambiente. Si stima che, a livello globale, circa l'8% del pescato totale viene scartato[84], e in alcuni casi si arriva a percentuali di scarto molto elevate, ad esempio in alcuni tipi di pesca a strascico dei gamberi il tasso di catture accidentali può raggiungere anche il 90% del pescato[84]. La cattura accidentale riguarda sia esemplari di specie bersaglio ma di taglia inferiore alla media e quindi privi di valore commerciale (che, secondo alcune fonti, rappresentano, a livello globale, una quantità compresa tra i 6,8 e i 27 milioni di tonnellate di scartato annuale[84]), sia altri animali di specie non utili al mercato, quali squali, cetacei, tartarughe marine, uccelli marini e altri animali. Si stima che ogni anno quasi 100 milioni di squali e di razze e circa 300 000 cetacei (balene, delfini e altre specie) siano vittime della pesca accidentale[84]. Gli uccelli marini invece vengono attratti dalle esche superficiali usate in alcune tecniche di pesca, vi si lanciano contro per mangiarle, ingoiano gli ami e vengono trascinati sott'acqua annegando: circa 100 000 esemplari di albatros ogni anno muoiono in questo modo[84]. Inoltre, per far fronte alle elevate richieste del mercato, si è andata diffondendo sempre più la tecnica della pesca a strascico, che prevede l’uso di enormi e pesanti reti da pesca trascinate lungo i fondali marini. Le larghe placche metalliche presenti su queste reti si muovono sui fondali spazzando via tutto ciò che incontrano lungo il percorso e lasciando così molte specie senza habitat: un solo passaggio di una rete a strascico rimuove fino al 20% della flora e della fauna dei fondali[84]. Acquacoltura A seguito dello stato di semicollasso delle zone di pesca, va diffondendosi sempre più velocemente l’acquacoltura, ovvero l’allevamento di animali marini in stabilimenti chiusi o in gabbie disposte in mare aperto: in soli 5 anni, dal 2000 al 2005, la produzione globale di acquacoltura è passata da 35,5 a 47,8 milioni di tonnellate, con un incremento del 34,65%, e l’acquacoltura fornisce, a livello mondiale, il 43% del pesce per uso alimentare[85]. In Europa, in due decenni la produzione è raddoppiata, passando da 642 000 tonnellate del 1980 a 1,3 milioni di tonnellate nel 2001[86]. L'acquacoltura viene spesso invocata come una soluzione ecologicamente sostenibile al sovrasfruttamento delle specie ittiche marine. Tuttavia è stato osservato che la quantità di mangime necessario ad allevare pesci carnivori e molto diffusi sul mercato come salmoni, orate o spigole, è tale da determinare un considerevole prelievo di specie ittiche marine. Normalmente occorrono dai 2,5 ai 5 kg di pesce pescato e trasformato in mangime per produrre un solo chilo di pesce d'acquacoltura[85], ma per alcune specie la quantità di pesce necessario è maggiore: ad esempio, per ingrassare un tonno di un solo chilogrammo, sono necessari da 20 a 25 kg di pesce[87]. Si stima che, solo nel Mediterraneo, per l'ingrasso dei tonni vengano utilizzate ogni anno 225 000 tonnellate di pesce, proveniente per lo più dai mari dell'Africa occidentale, dell'Oceano Atlantico e dell'America[87]. Inoltre la necessità di elevate quantità di mangime per l’industria dell’acquacoltura incentiva la pesca illegale di esemplari al di sotto della taglia ammessa per la cattura e induce la pesca verso la predazione di specie marine prive di interesse commerciale e di importanza vitale per la sopravvivenza di altre specie, come avviene ad esempio per la sardella d'Africa nel Mare di Alboran, la cui pesca intensiva pone a repentaglio la vita delle colonie delfine presenti nel Mediterraneo, che si nutrono di questo pesce[88]. In altri casi gli animali allevati vengono invece prelevati direttamente dal mare. È il caso ad esempio dell'allevamento dei tonni rossi, che vengono catturati in mare e poi trasferiti in allevamento per l'ingrasso. Il prezzo sul mercato del tonno ingrassato in allevamento è molto alto e questo spiega la crescita del numero e della capacità degli impianti riservati al tonno: solo gli impianti di acquacoltura siti nella zona del Mediterraneo arrivano ad una capacità complessiva che in peso di animale vivo supera le 50 000 tonnellate, e l'attività di pesca necessaria per rifornire questi allevamenti ha portato nelle acque del Mediterraneo ad una riduzione degli esemplari di tonno rosso stimata tra l'80 e il 95%[85]. Un altro grave problema è rappresentato dalla dispersione nell’ambiente di sostanze e microorganismi nocivi: dalle reti di allevamento poste in mare aperto, additivi chimici, residui antibiotici, disinfettanti, deiezioni e scarti di mangime, insieme a parassiti di vario genere, si depositano sui fondi o si disperdono nel mare, contaminando le acque e decimando la popolazione ittica locale. Per gli allevamenti di salmone, una delle specie allevate con il maggior incremento produttivo, sono stati accertati vari casi di impatto sull’ambiente, che comprendono una notevole riduzione (fino al 50%) della biodiversità nei dintorni delle gabbie, una diminuzione del livello di ossigeno nelle acque e una crescita eccessiva di alghe planctoniche responsabili della produzione di tossine nocive sia per gli organismi marini che per gli esseri umani[85]. Inoltre, spesso alcuni pesci riescono a fuggire dalle reti di allevamento, alterando l'equilibrio della fauna locale, e poiché frequentemente si tratta di animali malati, essi rappresentano anche un grave rischio di contagio per i pesci che vivono nel territorio. Gli allevamenti d’acquacoltura sono poi anche responsabili di una vasta distruzione delle foreste marine, fondamentali per la sopravvivenza di numerose specie, come avvenuto ad esempio in paesi come Vietnam, Thailandia, Filippine, Bangladesh, Ecuador e Brasile, dove gli allevamenti di gamberoni tropicali hanno causato notevoli danni alla fascia costiera delle foreste di mangrovie[85]. Perdita della biodiversità Secondo la FAO, «il settore zootecnico può essere considerato il principale fattore nella riduzione della biodiversità»[3]. I molteplici e rilevanti fattori di impatto ambientale correlati all'allevamento di animali quali l'occupazione delle terre, la deforestazione, la degradazione del suolo, l'emissione di gas serra, l'inquinamento e la distruzione dell'ecosistema marino e lo sfruttamento intensivo della pesca, concorrono insieme a determinare un significativo impatto sulla biodiversità animale e vegetale. Secondo l'International Union for Conservation of Nature (IUCN) un'invasione di specie aliene si verifica quando una specie aliena si stabilisce in un ecosistema naturale o seminaturale e minaccia la diversità delle specie native: l'allevamento di animali, pertanto, si configura come un'invasione di specie aliene, in quanto l'insediamento degli animali allevati in un ambiente naturale produce una significativa distruzione e trasformazione del territorio ospite (si consideri che, ad esempio, un solo manzo consuma 400 chilogrammi di vegetazione al mese[89], brucando erbe, cespugli e alberelli, e il calpestio degli zoccoli schiaccia le piante selvatiche al suolo) ed è responsabile della competizione con gli animali selvatici per l'acqua e il pascolo e dell'introduzione di nuove patologie trasmissibili alle specie native[3]. La perdita di biodiversità animale dovuta all'introduzione delle specie aliene allevate può avere effetti anche a livello continentale: ad esempio, quasi tutte le specie di importanza economica presenti nel continente americano non sono native, ma sono state introdotte dai colonizzatori europei nel corso del sedicesimo secolo, e molte delle popolazioni rinselvatichite nocive sono il risultato di queste introduzioni discriminate[3]. Gli esperti dello Species Survival Commission dell'IUCN hanno classificato i bovini, i caprini, gli ovini, i suini, i conigli e gli asini rinselvatichiti come specie aliene invasive (tra un totale di 22 specie aliene di mammiferi), e i suini, i caprini e i conigli rinselvatichiti sono stati segnalati tra le peggiori 100 specie aliene invasive[3]. Gli erbivori allevati contribuiscono significativamente anche alla dispersione di semi di specie vegetali aliene invasive e alla loro proliferazione[3], in quanto i semi possono rimanere impigliati nel pelo o depositarsi nel loro apparato digestivo e successivamente essere sparsi con le feci, inoltre anche gli allevatori contribuiscono alla diffusione di specie vegetali aliene, rimpiazzando la vegetazione nativa con erbe più adatte al pascolo. Con la colonizzazione del continente americano e, più tardi, con quella dell'Australia, in vaste regioni adibite al pascolo si verificò una diffusione di numerose erbe originarie dell'Europa e di un grande numero di infestanti del Vecchio Continente[90]. Delle oltre 500 piante erbacee perenni che si trovano nel Nordamerica, 258 appartengono a specie aliene: 177 sono di origine europea, 81 provengono dall'area mediterranea e dal Nordafrica[91]. L'erba che ha avuto il maggior successo in queste terre è la cheatgrass, un'ottima erba da foraggio ma che, una volta morta e secca, è facilmente infiammabile, e la probabilità che prenda fuoco è 500 volte superiore a quella di qualsiasi altra erba: quest'erba è infatti responsabile di molti incendi che divampano senza controllo nei territori occidentali del Nordamerica, distruggendo milioni di ettari di habitat selvaggio[92]. I conflitti tra allevatori e fauna selvatica esistono fin dall'origine della domesticazione degli animali. Inizialmente nelle comunità pastorizie la principale minaccia ravvisata dai pastori consisteva nella predazione dei grandi carnivori, che ha portato a vaste campagne di sterminio di questi animali in diverse regioni del mondo: in Europa ciò ha provocato l'estinzione locale di numerose specie, tra cui orsi e lupi, mentre in Africa ha determinato una pressione costante sulle popolazioni di leoni, ghepardi, leopardi e cani selvatici[3]. Questi conflitti persistono nelle regioni dove viene praticato l'allevamento estensivo e dove le popolazioni di carnivori hanno resistito o sono state reintrodotte, in maniera particolare nei paesi in via di sviluppo, come in Africa, ma simili situazioni sono frequenti anche nei paesi sviluppati: in Francia, ad esempio, la reintroduzione del lupo e dell'orso nelle Alpi e nei Pirenei ha intensificato i conflitti tra le comunità pastorizie, le lobby ambientaliste e il governo[3]. I motivi degli odierni conflitti tra predatori e allevatori sono da ricondurre, da una parte, alle riserve naturali spesso ridotte e non sufficienti per le necessità vitali degli animali selvatici, che per sfamarsi sono costretti ad assalire gli animali al pascolo, dall'altra alla riduzione dei pascoli stessi, che obbliga i pastori ad avvicinarsi sempre più ai parchi nazionali e ai predatori che li popolano. Inoltre, durante il ventesimo secolo, la percezione della fauna selvatica come una minaccia per l'allevamento si è evoluta con le conoscenze veterinarie, che hanno portato a considerare gli animali selvatici come potenziali vettori di patologie. Diverso è il caso del bisonte americano: nel continente americano, durante il periodo della colonizzazione, venne compiuta una vasta operazione di sterminio delle immense mandrie di bisonti che occupavano le praterie, in modo da liberare il territorio e renderlo disponibile per l'allevamento dei bovini domestici importati dall'Europa, oltre che per sottomettere e allontanare le comunità indigene degli indiani d'America, per le quali il bisonte rappresentava una importante fonte di sostentamento oltre che l'animale sacrificale di alcuni dei loro culti religiosi più importanti. Così, in soli pochi anni, la campagna di sterminio ha portato alla quasi totale estinzione del bisonte americano[93]. In epoca più recente, negli Stati Uniti il Bureau of Land Management, insieme ad altre agenzie governative, per favorire il pascolo degli animali ha portato avanti fin dal 1915 una serie di campagne successive (con l'impiego di fucili, tagliole metalliche, trappole, cianuro, kerosene e composti chimici letali) che hanno preso di mira il puma, il coyote, l'orso, la lince, il gatto selvatico e l'aquila, portandoli sull'orlo dell'estinzione[94]. Esortazioni dal mondo della scienza Sono stati svolti un gran numero di studi sul cosiddetto consumo sostenibile, che hanno offerto ai consumatori un numero crescente di informazioni relative all'impatto sull'ambiente in generale, e sul clima in particolare, delle scelte personali di consumo[95][96][97]. Molti di questi studi hanno concluso che l'impatto dei singoli individui è dovuto a tre fattori principali: il cibo, l'energia usata in casa e i trasporti[96], e di questi tre fattori, il cibo, ovvero ciò che il singolo decide di mangiare, rappresenta il più importante, poiché è quello che ha il maggiore impatto sull'ambiente, si trova sul più alto livello di scelta personale poiché non dipende da normative nazionali o sovranazionali, dalla disponibilità di mezzi pubblici o di fonti di energia alternativa, ecc., ma solo dalla decisione del singolo consumatore, e può essere modificato immediatamente, in quanto non occorre attendere i tempi che possono essere necessari per altre soluzioni che implicano cambiamenti nelle infrastrutture, nei beni disponibili o nella tecnologia usata[95]. Queste conclusioni hanno contribuito a determinare un crescente interesse della comunità scientifica sull'influenza che il consumo di cibi animali può avere sull'ambiente, e diversi autori hanno indicato come la riduzione del consumo di carne debba considerarsi una necessità per contrastare i gravi effetti avversi della produzione zootecnica. Uno studio condotto nel 2007 e pubblicato su The Lancet[6] ha esaminato la correlazione tra cibo, allevamenti, energia, cambiamenti climatici e salute. Dai calcoli eseguiti, i ricercatori hanno rilevato una media globale dei consumi di carne di 100 grammi al giorno per persona, con variazioni di circa 10 volte tra le varie regioni del mondo e con la quota più alta (224 grammi) nei paesi sviluppati. Nell'articolo i ricercatori propongono come soluzione realizzabile una convergenza globale verso un livello di consumo sostenibile fissato a 90 grammi di carne al giorno pro capite, tale da comportare una riduzione del 60% dei consumi di carne nei paesi sviluppati, contemporaneamente evitando che i paesi in via di sviluppo, nei quali il consumo di carne va costantemente crescendo, superino tale soglia. Secondo gli autori dello studio, la proposta porterebbe a molti effetti collaterali positivi: una dieta più sana, una migliore qualità dell'aria, una maggiore disponibilità di acqua e, inoltre, sarà possibile raggiungere una razionalizzazione nell'uso dell'energia e della produzione di cibo. Altre soluzioni hanno proposto cambiamenti più radicali. Nel 2006 il programma di ricerca PROFETAS (Protein Foods, Environment, Technology and Society)[7][8][2], finanziato dal Netherlands Organisation for Scientific Research, ha esplorato, attraverso un approccio multidisciplinare, la possibilità di un mutamento radicale nei modelli alimentari, concludendo che è essenziale un cambiamento che conduca da diete basate su proteine di origine animale verso diete basate su proteine di origine vegetale. Secondo i ricercatori, la situazione che si creerà nel futuro a seguito dei previsti aumenti della produzione di carne sarebbe ecologicamente molto difficile da sostenere, mentre il passaggio ad un nuovo tipo di alimentazione basata sulle proteine vegetali condurrebbe a molti vantaggi nell'uso energetico e delle risorse globali. Ad esempio, hanno osservato i ricercatori, gran parte del terreno utilizzato per la coltivazione di mangime potrebbe essere convertita nella produzione di biomassa a fini energetici, tanto da coprire un quarto dei consumi elettrici mondiali e frenando in tal modo la crescente distruzione delle foreste e, anzi, invertendo tale processo. Alla medesima conclusione sono giunti nel 2009 dei ricercatori del Royal Institute of Technology di Stoccolma in uno studio dove sono state valutate le emissioni di gas serra di diversi alimenti di uso comune per dimostrare come le scelte alimentari possano fare la differenza[9]. Nell'articolo gli autori affermano che «a livello di emissioni di gas serra, il modo più efficiente di consumare proteine è mangiare cereali, legumi e pesce pescato in modo efficiente, con bassi consumi di carburante. Sfortunatamente, lo stock di pesce è fortemente minacciato, con molte zone di pesca sovrasfruttate o completamente sfruttate, il che lascia ai consumatori attenti all'ambiente sostanzialmente le sole alternative vegetariane. [...] Non è impossibile immaginare un mondo futuro [...] in cui il consumo di alcuni tipi di carne sia un'eccezione riservata a determinate festività e rituali». Analogamente, in un report pubblicato dall'UNEP (United Nations Environment Programme) nel 2010[10] si evidenzia come il consumo di cibi animali sia una delle principali cause di impatto ambientale, e gli autori, nelle conclusioni, affermano: « Si prevede che gli impatti dell'agricoltura aumentino in modo sostanziale a causa dell'aumento di popolazione, che comporterà un aumento del consumo di prodotti animali. A differenza dei combustibili fossili, è difficile vedere delle alternative: la gente deve mangiare. Una riduzione sostanziale degli impatti sarà possibile solamente attraverso un drastico cambiamento dell'alimentazione globale, scegliendo di allontanarsi dai prodotti animali. » Riduzione dei consumi di carne e CO2 Nel 2008 l'Institute for Environmental Studies della VU University di Amsterdam ha compiuto uno studio per quantificare la riduzione di emissioni di CO2 in relazione ad un minor consumo di carne, fornendo un confronto con la riduzione di emissioni di CO2 ottenibile applicando altre misure più note al grande pubblico, come un ridotto utilizzo dell'auto, l'uso di lampadine a basso consumo energetico, l'installazione di doppi vetri[11]. I risultati hanno dimostrato come il semplice cambiamento delle proprie abitudini alimentari possa risultare molto più efficace nel determinare una riduzione delle emissioni di gas serra globali rispetto a tutti gli altri accorgimenti applicabili. I calcoli sono stati eseguiti prendendo come paese di riferimento l'Olanda, e i risultati ottenuti hanno mostrato che se per un anno intero tutti i cittadini olandesi non mangiassero carne per un giorno alla settimana, si otterrebbe un risparmio totale di 3,2 megatonnellate di CO2, equivalente alla circolazione di un milione di auto in meno dalle strade dell'Olanda per un anno, mentre se per un anno intero tutti i cittadini olandesi non mangiassero carne per sette giorni alla settimana - dunque nell'ipotesi di una popolazione olandese latto-ovo-vegetariana - si otterrebbe un risparmio totale di 22,4 megatonnellate di CO2, equivalente alle emissioni totali prodotte dal consumo domestico di gas (riscaldamento, acqua calda per bagni e docce e cottura dei pasti) dell'intera Olanda. La proposta vegetariana Diversi studi hanno evidenziato i vantaggi che è possibile ottenere sul piano ambientale con l'adozione di diete vegetariane. Uno studio del 2003 condotto da ricercatori della Cornell University di New York[12] ha constatato come «il sistema alimentare basato sul consumo di carne richiede più energia, terra e risorse idriche rispetto alla dieta latto-ovo-vegetariana». Ad un'analoga conclusione sono giunti dei ricercatori della Loma Linda University in uno studio del 2009[13], dove è stato rilevato che «[...] la dieta non-vegetariana richiede 2,9 volte più acqua, 2,5 volte più energia primaria, 13 volte più fertilizzanti e 1,4 volte più fitofarmaci rispetto alla dieta latto-ovo-vegetariana». Nel 2012, nel corso della settimana mondiale dell'acqua, il SIWI (Stockholm International Water Institute) ha presentato un report in cui ha avvertito che «non ci sarà abbastanza acqua disponibile per produrre cibo per una popolazione di 9 miliardi di persone prevista per il 2050, se si continueranno a seguire le attuali tendenze verso la dieta comunemente adottata nei paesi occidentali», e proponendo una drastica riduzione del consumo di proteine animali fino ad arrivare ad una quota pari al 5% delle proteine totali assunte con la dieta. Gli scienziati, nella presentazione del report, hanno affermato che l'adozione di una dieta vegetariana può offrire la possibilità di aumentare la disponibilità di acqua per produrre più cibo[14][15]. Naturalmente, ad un minor consumo di cibi animali corrisponde un minore impatto sull'ambiente. Per tale motivo una dieta vegana sarebbe la scelta alimentare più vantaggiosa dal punto di vista ambientale,. Ad esempio, per quanto riguarda le emissioni di gas serra, da uno studio del 2008 condotto dall'Institute for Ecological Economy Research di Berlino[16] e volto ad indagare l'impatto dell'agricoltura e dell'allevamento sull'effetto serra, emerge che, rispetto ad una dieta vegana, una dieta latto-ovo-vegetariana ha un impatto di quasi 4 volte superiore, e una dieta a base di cibi animali ha un impatto di circa 7,5 volte superiore[98]. Per quanto riguarda il consumo idrico, è stato osservato che la produzione di cibo per un giorno per una persona che segue una dieta a base di cibi animali necessita di 15 100 litri di acqua, 4500 per chi segue una dieta latto-ovo-vegetariana, mentre ne sono sufficienti solo 1100 per chi segue una dieta vegana: tale dieta richiede pertanto meno acqua nel corso di un anno rispetto a quanta ne occorre per una dieta a base di cibi animali per un solo mese[17]. Da un punto di vista più generale, uno studio del 2006 condotto da ricercatori italiani[18] e volto ad indagare tutti i possibili impatti ambientali derivanti da diete vegetariane e non-vegetariane, ha riscontrato che, rispetto ad una dieta vegana, una dieta latto-ovo-vegetariana ha un impatto 1,8 volte superiore e una dieta a base di cibi animali 2,7 volte superiore, in riferimento a modelli alimentari formulati con parametri dietetici equilibrati e quindi in via teorica, per quanto riguarda i risultati ottenuti dai ricercatori per la dieta a base di cibi animali tipicamente condotta da un italiano medio, questa risulta invece avere un impatto 6,7 volte maggiore rispetto ad una dieta vegana[99]. La discussione sull'impatto ambientale dell'allevamento di animali La relazione tra il consumo di cibi animali, l'allevamento di animali e l'impatto ambientale provocato è stata per lungo tempo ignorata dalla comunità scientifica, dai mezzi di comunicazione e perfino dalla comunità ambientalista. L'impatto ambientale, oltre che sociale, dell'allevamento degli animali - con particolare riferimento alle mandrie bovine - è stato esaminato e rivelato per la prima volta al grande pubblico nel 1992 con il celebre saggio Ecocidio di Jeremy Rifkin. L'autore, fin dall'introduzione, avvisava della nefasta influenza della moderna zootecnia mondiale sull'ambiente e dell'urgenza di una soluzione radicale: « Per un pubblico abituato a pensare ai problemi ambientali esclusivamente in termini di gas di scarico delle automobili, scarichi industriali, materiali tossici e radioattivi, probabilmente la dimensione della distruzione ambientale provocata dal moderno allevamento di bestiame costituirà una sorpresa. Eppure, la devastazione ecologica provocata dalla popolazione bovina mondiale sopravanza altre numerose e più visibili fonti di rischio ambientale. [...] Lo smantellamento del complesso bovino mondiale e l'eliminazione della carne dalla dieta umana sono un obiettivo fondamentale dei prossimi decenni, se vogliamo avere qualche speranza di rimettere in salute il pianeta e di dare nutrimento alla popolazione umana in continua crescita[100]. » È emersa una maggiore attenzione al problema, grazie soprattutto al crescente interesse della comunità scientifica che ha portato alla produzione di un vasto numero di studi sulla relazione tra allevamento di animali e impatto ambientale. Nel 2006 la FAO ha pubblicato il Livestock's Long Shadow[3], un report scientifico di 390 pagine in cui viene accuratamente valutato l'impatto globale del settore zootecnico sui problemi ambientali. Nell'introduzione gli autori affermano: « Il settore dell'allevamento emerge come una delle prime due o tre più significative cause dei più gravi problemi ambientali, a tutti i livelli da locale a globale. [...] L'impatto è così rilevante che deve essere affrontato con urgenza[3]. » A seguito dei dati emersi e diffusi dalla ricerca scientifica e delle varie pubblicazioni del mondo scientifico, si può assistere ad una maggiore attenzione del problema presso i media e l'opinione pubblica. Nel 2007 è stato presentato Meat The Truth, un documentario che illustra come l'allevamento degli animali sia uno dei principali responsabili del riscaldamento globale[101]. Nel 2010 il quotidiano inglese The Guardian, in un articolo a commento del report dell'UNEP sopra menzionato, ha avvertito che «uno spostamento globale verso una dieta vegana è di vitale importanza per salvare il mondo dalla fame, dalla scarsità di carburante e dalle peggiori conseguenze del cambiamento climatico[102]». Esortazioni e appelli per sensibilizzare la popolazione sui danni ambientali provocati dal settore zootecnico sono stati lanciati anche da varie personalità e celebrità. Rajendra Pachauri, vegetariano[103], premio Nobel per la pace e direttore dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), da alcuni anni si batte per far conoscere i danni provocati dal consumo di carne sul riscaldamento globale, invitando ad una riduzione del consumo di carne quale scelta personale decisiva per contribuire a ridurre le emissioni di gas serra[104][105][106]. Nicholas Stern, presidente del Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment presso la London School of Economics, in un'intervista al Times ha dichiarato: « La carne determina uno spreco di acqua e produce elevate emissioni di gas serra. Essa esercita una enorme pressione sulle risorse del pianeta. Una dieta vegetariana è meglio. [...] Ritengo sia importante che la gente pensi a cosa sta facendo e questo include cosa sta mangiando. [...] Dovranno incominciare a riflettere anche sulle emissioni prodotte da quello che si mangia[107]. » Paul McCartney, anch'egli vegetariano[108], da anni è promotore e sostenitore di diverse iniziative di sensibilizzazione sull'impatto ambientale del consumo di carne[109][110] e, nel 2009, ha condotto una campagna per l'iniziativa dei "lunedì senza carne" con un tour di concerti in tutta Europa[111]. Di contro è stato evidenziato come non sempre l'alimentazione vegetariana sia ecosostenibile[112] e meno crudele nei confronti degli animali, dato che lo sviluppo della coltivazione intensiva di vegetali per il consumo umano condanni, di fatto, molte specie animali, per via della drastica riduzione della varietà vegetale[113]. I "lunedì senza carne" Lo scopo dell'iniziativa dei "lunedì senza carne" è quello di invitare le persone ad impegnarsi a consumare ogni lunedì solo pasti vegetariani, in grado di contribuire a migliorare la propria salute e a ridurre il proprio impatto sull'ambiente. I "lunedì senza carne" possono anche essere considerati un inizio modesto nella direzione di un mangiare sano, sostenibile ed etico all'interno di un percorso che può concludersi con l'adozione di una dieta vegetariana vera e propria. La più popolare campagna dei "lunedì senza carne" Meatless Monday è stata avviata nel 2003 negli Stati Uniti dal Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health's Center for a Livable Future e si è poi velocemente diffusa in altre parti del mondo, fino a diventare un movimento globale[114] con sostenitori in tutto il mondo, tra cui ospedali, scuole, ristoranti, hotel, pub, chef e celebrità[115]. Il 13 maggio 2009, Ghent, una cittadina del Belgio, è stata la prima città del mondo a promuovere ufficialmente una giornata settimanale senza carne con il lancio della campagna Thursday Veggie Day (giovedì vegetariano), come impegno a combattere i cambiamenti climatici e promuovere uno stile di vita più in equilibrio con l'ambiente. Con la campagna, rivolta a tutti i cittadini, le scuole della città hanno iniziato a servire pasti vegetariani ogni giovedì. È stata spedita una brochure sulla cucina vegetariana ai 1500 ristoranti, che ben presto hanno iniziato ad aumentare l'offerta di piatti vegetariani nei loro menù, e sono stati organizzati corsi di cucina vegetariana sia per professionisti che per i cittadini[116][117][118]. In seguito, altre città hanno aderito ai "lunedì vegetariani", come San Francisco[119], Washington[120] e Baltimora[121]. Un problema poco considerato Nonostante l'evidenza scientifica sull'impatto ambientale provocato dall'allevamento degli animali e la maggiore attenzione al problema negli anni più recenti, molte persone ignorano o minimizzano questo aspetto centrale della crisi ambientale attuale, soprattutto a causa delle politiche irresponsabili delle associazioni ambientaliste e delle istituzioni. Nello studio precedentemente citato dei ricercatori del Royal Institute of Technology di Stoccolma, gli autori notano con perplessità che, benché un'alimentazione orientata verso un maggiore consumo di cibi vegetali avrebbe un decisivo effetto nel mitigare le emissioni di gas serra, «nelle molte azioni attualmente proposte ai consumatori per ridurre l'effetto serra, difficilmente viene incoraggiato un maggiore consumo di cibi vegetali[9]». Perfino il noto documentario con Al Gore Una scomoda verità del 2006, nel quale vengono esaminate le cause e gli effetti del riscaldamento globale, ignora completamente il ruolo della zootecnia moderna nell'emissione di gas serra, e nelle raccomandazioni che l'ex-vicepresidente degli Stati Uniti rivolge al pubblico non viene fatto alcun riferimento all'influenza che il consumo di cibi animali ha sul riscaldamento globale[122]. Frequentemente vengono proposte delle soluzioni per aggirare il problema del consumo di cibi animali. Ad esempio, in molti affermano che i danni della zootecnia sull'atmosfera possono essere evitati con l'uso di tecniche di recupero e riciclo dei gas prodotti, ma in realtà le tecnologie applicabili a costo sostenibile possono ridurre le emissioni al massimo solo di un 20%[6]. Allevamento biologico Spesso, anche l'uso di cibi animali da allevamento biologico viene proposto come una soluzione ecologicamente sostenibile. Ma, come è stato precedentemente fatto notare in più punti, anche l'allevamento biologico, basato sui sistemi estensivi, comporta un impatto ambientale rilevante e in alcuni casi addirittura superiore ai sistemi di allevamento intensivo, in cui l'intero processo di produzione è studiato su criteri di massimizzazione delle risorse e concentrazione dei tempi. Secondo Walter Falcon, economista agricolo della Standford University, «i migliori allevamenti del futuro sono quelli ad alta intensità[123]». Per quanto riguarda gli effetti sul riscaldamento globale, nello studio precedentemente citato condotto dall'Institute for Ecological Economy Research di Berlino[16], dai risultati ottenuti emerge che, per il consumo di cibo di una persona per un anno intero, una dieta a base di cibi animali con prodotti ottenuti da agricoltura convenzionale produce una emissione di gas serra equivalente a quella prodotta guidando un'auto per 4758 km, mentre scegliendo prodotti ottenuti da agricoltura biologica si ottiene una emissione di gas serra pari a 4377 km, con una riduzione di gas emessi non molto significativa dell'8%. Per una dieta latto-ovo-vegetariana, si passa da 2427 km con prodotti da agricoltura convenzionale a 1978 km con prodotti da agricoltura biologica, con una riduzione in percentuale già maggiore (18%). Infine, per una dieta vegana con prodotti da agricoltura convenzionale si ottiene una emissione di gas serra pari a 629 km, una quota già inferiore rispetto ai risultati ottenuti per gli altri due modelli alimentari considerati anche quando questi prevedono il solo consumo di cibi da agricoltura biologica. Inoltre, in una dieta vegana, nel passaggio da prodotti da agricoltura convenzionale a prodotti da agricoltura biologica, si giunge ad una emissione di gas serra pari a soli 281 km, con una riduzione di oltre la metà (55,2%). Da questi risultati emerge dunque come la scelta di prodotti da agricoltura biologica risulti molto vantaggiosa in una dieta vegana, discretamente utile in una dieta latto-ovo-vegetariana ma poco significativa in una dieta a base di cibi animali. Secondo gli autori dello studio l'allevamento biologico non sarebbe di per sé una soluzione al problema delle emissioni di gas serra del settore zootecnico, poiché sarebbe in grado di ridurre le emissioni solo del 15-20%, inoltre una completa conversione degli allevamenti attuali in sistemi di tipo estensivo necessiterebbe del 60% di superficie in più, che in Europa non sarebbe comunque disponibile. Quindi, concludono gli autori, l'allevamento biologico potrebbe essere considerato un'alternativa realistica solo a patto che la produzione e il consumo di carne e latte si riducano del 70%, in modo da rendere possibile il pascolo degli animali sulle terre disponibili. Formaggi in vendita in un mercato locale. Uno studio ha rilevato che acquistare "cibo a chilometro zero" influisce solo per il 4% nel totale delle emissioni di gas serra prodotte nell'intero ciclo di produzione alimentare. Analogamente, nello studio innanzi citato condotto dai ricercatori italiani[18] volto ad indagare tutti i possibili impatti ambientali derivanti da diete vegetariane e non-vegetariane, gli autori ritengono che una dieta a base di cibi animali, per essere ecologicamente sostenibile, deve essere basata esclusivamente su prodotti di origine biologica e, rispetto alle abitudini del cittadino medio italiano, deve comportare una riduzione di circa l'80% di cibi animali. Cibo a chilometro zero In altri casi si focalizza l’attenzione su cause minori, ad esempio sul fronte alimentare, si consiglia la scelta del cosiddetto "cibo a chilometro zero" (ovvero cibo acquistato da produttori locali), in quanto comporterebbe una drastica riduzione delle emissione di gas nocivi. Tuttavia uno studio del 2008 di due ricercatori della Carnegie Mellon University[19] ha rilevato che le emissioni di gas serra associate al cibo sono determinate principalmente dalla fase di produzione, che contribuisce per l'83% del totale, mentre il trasporto delle materie prime contribuisce per l'11% e il trasporto finale dal produttore al consumatore contribuisce invece solo per il 4%, e nel calcolo del "cibo a chilometro zero" viene considerato solo quest'ultimo passaggio, che ha quindi influenza poco significativa. Nelle conclusioni dello studio gli autori hanno calcolato inoltre che una famiglia media che consumi per un anno intero solo "cibo a chilometro zero" può riuscire ad ottenere una riduzione di emissioni di gas serra equivalente alle emissioni prodotte guidando un'auto per 1600 chilometri, una famiglia media che consumi solo cibi vegetali per un solo giorno alla settimana per un anno intero può riuscire ad ottenere una riduzione di 1860 chilometri equivalenti, una quota già più alta, mentre una famiglia media che consumi solo cibi vegetali per un anno intero (ovvero che segua una dieta vegana) può riuscire ad ottenere una riduzione di 13 000 chilometri equivalenti, una quota otto volte superiore a quella ottenibile con il solo consumo di "cibo a chilometro zero". Ovviamente il cibo consumato in una dieta a chilometro zero dovrà essere esclusivamente delle varietà locali. Ad esempio un Milanese non potrebbe avere accesso alle arance, nessuno Svedese alla pasta, nessun Europeo alle banane e così via. Violazioni dei diritti umani A subire gli effetti immediati della deforestazione legata alla produzione di carne bovina sono soprattutto i popoli indigeni che abitano in quei territori. In Paraguay, ad esempio, le foreste in cui vivono gli ultimi gruppi di Indiani incontattati del paese vengono abbattute per fare spazio ad allevamenti di bestiame che servono i mercati europeo, africano, russo e nordamericano; secondo uno studio scientifico dell'Università del Maryland, il Chaco paraguaiano - ultimo rifugio di una tribù incontattata - è devastato dal tasso di deforestazione più alto al mondo[124]. La compagnia brasiliana produttrice di carne Yaguarete Pora aderisce al Global Compact[125], un'iniziativa lanciata dalle Nazioni Unite per incoraggiare le compagnie ad agire in conformità con i principi che “sostengono e rispettano la protezioni dei diritti umani riconosciuti a livello internazionale"; tuttavia il suo lavoro non solo costringe alla fuga gli Ayoreo Totobiegosode [126] incontattati, ma mette anche in grave pericolo le loro vite. Gli Indiani incontattati, infatti, non hanno difese immunitarie verso le malattie portate dall'esterno e rischiano di essere sterminati in caso di contatto con i lavoratori della compagnia. Nel settembre 2013 Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, ha dichiarato di avere scritto alla Commissione Europea per sollecitare un'indagine sulle importazioni europee di carne prodotta dalla Yaguarete[127]. In Brasile, le foreste dei Guarani sono state disboscate ed occupate da allevatori di bestiame[128]; da anni gli Indiani sono costretti a vivere in accampamenti ai margini di una superstrada. Stanchi di aspettare l'intervento delle autorità brasiliane, da alcuni anni le comunità guarani hanno cominciato a rioccupare le loro terre (retomada) sfidando le violente reazioni degli allevatori e dei loro sicari, assoldati per intimidire, picchiare e uccidere gli Indiani[129] [130]. L'elenco dei popoli indigeni strappati alle loro terre per far spazio ad allevamenti è lungo, tra questi figurano anche gli Enawene Nawe[131], gli Xavante e gli Akuntsu[132] del Brasile, e i Boscimani dell'Africa meridionale[133]. FONTE: https://it.wikipedia.org/wiki/Impatto_ambientale_dell%27industria_dei_cibi_animali










Alimentazione e ambiente, l'impatto ambientale del nostro cibo
Consigli ecologici per la spesa e l'alimetazione
Che fame dopo un'intensa mattina di studio o lavoro! Certo, hamburger e bibita sono allettanti, veloci ed economici ma non sono certo ecosostenibili! Purtroppo, le grandi catene di fast food, per garantire prezzi bassi, attuano politiche economiche in stridente contrasto con le esigenze ambientali: per produrre molta carne, servono molte mucche, che hanno bisogno di grandi pascoli, che vengono realizzati mediante deforestazione e cancellazione di colture pre-esistenti, spesso con l'appoggio di governi locali corrotti. Paghiamo pochi soldi per mangiare, ma il conto ambientale è salato. E lo stesso processo avviene per la grande distribuzione: grandi numeri, garantiti da colture ricche di agenti chimici che finiranno nei nostri piatti, dopo aver percorso magari migliaia di chilometri prima di arrivare sotto casa nostra. Qualche volta cerca allora di pranzare in luoghi che servono, se non prodotti locali, almeno regionali o italiani. Molti esercizi iniziano ad offrire cibo biologico, che per sua natura ha una provenienza in gran parte locale e, soprattutto, è privo di fertilizzanti chimici.Consumando un pasto con prodotti locali e di stagione si risparmia energia e si producono la metà delle emissioni di gas ad effetto serra come l'anidride carbonica. In più si ottengono sicurezza e il tipico, inconfondibile sapore della nostra terra e delle nostre tradizioni. Una famiglia media può risparmiare fino a 1.000 chili di anidride carbonica l'anno. 2 esempi: il trasporto via aereo di un chilo di mele cilene produce 18,3 kg di anidride carbonica e consuma 5,8 chili di petrolio; per un kg di kiwi dalla Nuova Zelanda vengono emessi 24,7 kg di anidride carbonica e consumati 7,9 chili di petrolio. Il risparmio energetico a tavola è anche una risposta agli effetti dei cambiamenti climatici. Un numero sempre maggiore di consumatori nel mondo chiede prodotti freschi, naturali, prodotti nel territorio, e che non devono percorrere grandi distanze con mezzi inquinanti prima di giungere sulle nostre tavole. LA NOSTRA SPESA E L'IMPATTO AMBIENTALE: L'INCIDENZA DEL NOSTRO CIBO E DELLA NOSTRA ALIMENTAZIONE SULL'AMBIENTE I comportamenti di acquisto responsabile di ciò che mangiamo possono concretamente contribuire alla riduzione dell'inquinamento e al risparmio energetico. Prodotti come vino australiano, prugne cilene e carne argentina che devono percorrere migliaia di chilometri prima di giungere sulle nostre tavole ma che possono essere validamente sostituiti da prodotti "nostrani": l'Italia vanta infatti 469 vini nazionali doc, docg e igt, ha il primato europeo nella quantità, varietà e sanità dell'ortofrutta e per quanto riguarda la carne non mancano prestigiose razze storiche come la Chianina, da cui si ottiene la bistecca fiorentina. Altri esempi di cibo che si potrebbe sostituire con alimenti nazionali: l'anguria da Panama, la carne dal Brasile, l'aglio e il pomodoro dalla Cina, l'uva dal Sudafrica, i meloni da Guadalupe e il riso dagli Stati Uniti. Per alcuni di questi prodotti sono stati rilevati problemi di carattere sanitario: la Commissione europea è intervenuta per limitare le importazioni di carne brasiliana perché non soddisfa i requisiti sanitari dell'Ue, mentre sull'aglio cinese pesano tutte le perplessità provocate dalle emergenze che si sono verificate per gli alimenti provenienti dal Paese. E per gli altri prodotti, non ci sono motivazioni che ne giustifichino la scelta, anche considerando il fatto che acquistare quelli italiani durante la stagione produttiva garantisce maggiore risparmio e freschezza. Consumando prodotti locali e di stagione e facendo attenzione agli imballaggi, una famiglia può arrivare ad abbattere fino a mille chili di anidride carbonica all'anno. In Italia la Coldiretti, che ha stilato la "classifica dei cibi da evitare", chiede l'introduzione dell'obbligo di indicare in etichetta la provenienza di cibi, la disponibilità di spazi adeguati nella distribuzione commerciale e l'inaugurazione del primo circuito a chilometri zero. Nel 2008 è entrato in vigore il decreto che rende possibile organizzare mercati gestiti dagli agricoltori anche in zone centrali e con frequenza giornaliera, settimanale o mensile. La Coldiretti si è posta l'obiettivo di aprire almeno un farmer market in ogni città. Il primo è nato a Taranto. L'obiettivo è ripetere un'esperienza di successo di altri Paesi come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti dove il fenomeno è in rapida espansione. Intanto, sul sito www.campagnamica.it è possibile individuare nel proprio comune, provincia o regione le aziende agricole che vendono direttamente, selezionando anche le categorie di prodotto desiderate e le specialità garantite da marchio. Online anche l'elenco delle centinaia di distributori automatici di latte fresco direttamente dalle stalle. Alcuni numeri: - il vino australiano deve percorre oltre 16.000 chilometri con un consumo di 9,4 kg di petrolio e l'emissione di 29,3 kg di anidride carbonica - le prugne cilene devono volare per 12.000 km con un consumo di 7,1 kg di petrolio che liberano 22 kg di anidride carbonica - la carne argentina viaggia per 11.000 km, bruciando 6,7 kg di petrolio e liberando 20,8 kg di Co2 - un pasto medio percorre più di 1.900 km in camion, navi e/o aeroplani prima di arrivare sulla vostra tavola e spesso ci vuole più energia per portarlo al consumatore di quanto il pasto stesso provveda in termini nutrizionali Una maggiore attenzione nella scelta dei prodotti della nostra spesa contribuisce in modo davvero concreto alla lotta all'inquinamento: acquistare prodotti locali, meglio se biologici, o almeno nazionali è pratica facile ed efficace. FONTE: http://www.educambiente.tv/icatalog/1027/b-ambiente-ecologia.html





10 Consigli per un’alimentazione sostenibile
Mangiare può diventare un gesto ecologico! Ecco 10 suggerimenti per un’alimentazione a minore impatto ambientale Il riscaldamento globale, la desertificazione e la perdita di biodiversità sono solo alcuni dei cambiamenti che il Pianeta sta subendo principalmente a causa delle attività dell’uomo. Tra le tante attività che contribuiscono a questi cambiamenti, grande responsabilità è da attribuire anche a come si produce e si consuma il cibo. Per tutti gli esseri viventi il cibo è necessario per vivere, ma la qualità, la quantità e la tipologia di questo cibo possono influire molto sullo stato di salute, sia nostro sia dell’ambiente. Questo significa che è necessario scegliere ogni giorno un’alimentazione che sia sostenibile per il nostro pianeta e fonte di benessere per gli individui, sempre più affetti da malattie legate a una cattiva o eccessiva alimentazione. 1- ACQUISTA PRODOTTI LOCALI 4 buoni motivi per acquistare "locale": Compri prodotti freschi Sostieni l’economia locale e le filiere italiane Riduci le emissioni di CO2 limitando i trasporti Privilegi prodotti tipici e varietà nostrane, spesso a rischio di estinzione Acquistare locale vuol dire privilegiare la filiera corta, cioè ridurre i passaggi tra i produttori e i consumatori, eliminando gli intermediari, con vantaggi di riduzione degli impatti ambientali, di sostegno agli agricoltori italiani e riduzione della spesa settimanale. La filiera italiana è il prodotto alimentare le cui materie prime derivano dall’agricoltura italiana e il cui processo di trasformazione avviene totalmente nel nostro Paese. È, infatti, evidente come più lungo sia il viaggio effettuato da un alimento, maggiori siano l’inquinamento, i consumi di energia e le emissioni di gas serra associate. Per esempio, per la loro stessa natura i frutti tropicali (tra cui le banane) per arrivare nei nostri carrelli riciedono in primis il trasporto ma anche molto packaging e un processo di conservazione. Ciò ha un prezzo, prima di tutto, ambientale. Cerca di orientare quanto più possibile le tue scelte verso le varietà di frutta e verdura italiane e prodotte nella tua zona. Sotto la spinta dell’aumento della produttività e dei profitti negli ultimi decenniil patrimonio genetico delle specie animali e vegetali domestiche (l’agrobiodiversità) si è notevolmente ridotto, determinando la selezione di un numero limitato di varietà di piante e di razze animali tutte caratterizzate da un elevato rendimento e traducendosi in un grave impoverimento. Tale impoverimento determina anche la perdita della capacità di adattamento delle specie alimentari ai cambiamenti ambientali in atto. In quest’ottica riscoprire colture di nicchia, prodotti locali per i quali la distribuzione non si sviluppa su grande scala, rappresenta una scelta importante per la salvaguardia dell’ambiente e del gusto. 2- MANGIA PRODOTTI DI STAGIONE Se mangiare frutta e verdura è importante, altrettanto importante è mangiarle nel momento giusto. La frutta e la verdura hanno una propria stagionalità. In natura le specie animali si nutrono in maniera diversa a seconda delle stagioni e questo è importante per la conservazione degli ecosistemi. L’uomo, grazie alla tecnologia e alle importazioni, può potenzialmente mangiare in ogni momento dell’anno qualsiasi alimento, mentre uno dei principi più importanti di una dieta sana ed equilibrata è proprio nella varietà. Consumare frutta e verdura di stagione aiuta a rispettare questo principio. Inoltre i prodotti di stagione, soprattutto se locali, impiegano poco tempo per arrivare sulle nostre tavole mantenendo così maggiore contenuto di vitamine e nutrienti rispetto a quelle che, fuori stagione, devono fare molta strada e permanere nei frigoriferi prima di giungere sui banchi del supermercato. Sono inoltre più buone, profumate e aromatiche oltre che economiche. Associate a questi aspetti ci sono ovviamente le questioni ecologiche: i prodotti di stagione aiutano l’ambiente perché in generale determinano minori impatti. Per esempio, la produzione in serre richiede un’enorme quantità di energia per il mantenimento dell’illuminazione e delle temperature di coltivazione, energia che viene prodotta in massima parte con l’impiego di combustibili fossili. È il caso del pomodoro dove, per la coltivazione in serra, il fattore di emissione è circa 60 volte superiore a quello della coltivazione in campo. In inverno, una buona soluzione per ridurre il consumo di pomodori freschi sta nell’usare le conserve e limitare al massimo le insalate, mangiando altre verdure e provando ricette diverse. 3- DIMINUISCI CONSUMI DI CARNE L’attuale modello industriale di allevamento animale è la causa di gravissimi problemi ambientali: cambiamenti climatici, inquinamento, consumo di acqua, perdita di biodiversità, deforestazione e consumo di risorse fossili. La gran parte della carne che consumiamo proviene da proprio allevamenti industriali intensivi: per ottenere 1 kg di carne di manzo sono quindi necessari circa 15 kg di cereali e soia, 15.000 litri d'acqua e si emettono fino a 68 kg di CO2eq. Inoltre se nell’allevamento tradizionale le deiezioni rientrano nel ciclo naturale della concimazione, negli allevamenti intensivi "senza terra” l'enorme quantità degli deiezioni prodotte (una vacca da latte produce un quantitativo di deiezioni pari a quello di 20-40 persone) non può essere “assorbita” dall'ambiente circostante. E la produzione di carne è in costante crescita: dal 1980 al 2010, il numero di polli destinati al consumo umano è cresciuto del 169%, passando da 7,2 miliardi di animali a 19,4 miliardi. Nello stesso periodo, la popolazione di capre e pecore ha raggiunto i 2 miliardi e la popolazione dei bovini è cresciuta del 17% raggiungendo 1,4 miliardi. Un’altra conseguenza di questo incredibile incremento è che oggi quasi la metà della produzione agricola mondiale viene utilizzata come fonte alimentare per gli animali d’allevamento. In particolare, il consumo di carne in Europa è il doppio della media mondiale, per prodotti caseari è 3 volte superiore. Il consumo italiano annuale medio di carne si attesta sui 90 kg a testa, ben oltre qualsiasi raccomandazione salutistica. Se non vuoi rinunciare alla carne, cerca di ridurre il numero di volte in cui la mangi a settimana e le porzioni, consumando meno carne e di migliore qualità (prodotta localmente con metodi di allevamento estensivo) e sostituendo il resto con altre fonti proteiche. 4- SCEGLI I PESCI GIUSTI 1) PREDILIGI il pesce pescato, rispetto a quello di acquacoltura; 2) SCEGLI specie non in pericolo di estinzione; 3) RISPETTA la regola della taglia legale di vendita delle specie; 4) DAI LA PRECEDENZA al pescato locale, diversificando le specie; 5) CONSIDERA la stagionalità delle specie. Le risorse ittiche non sono illimitate. Nel Mediterraneo il 96% degli stock ittici di acque profonde è sovra sfruttato, così come il 71% delle specie di mare aperto (come sardine e acciughe). Sulle tavole dei consumatori italiani arriva però pesce da tutto il mondo. Nessuno si chiede da dove vengano sogliole, scorfani o rane pescatrici. In Italia quasi nessuno mangerebbe una specie terrestre a rischio d’estinzione, mentre spesso questo avviene quando si consuma del pesce come il baccalà o l’anguilla. Delle oltre 700 specie marine commestibili presenti nel Mediterraneo solo il 10% circa è commercializzato. La conseguenza di questa "ignoranza" è un sovrasfruttamento degli stock delle specie più conosciute (come alici, nasello, merluzzo, pesce spada, sgombro, sogliole), che tendono col tempo a scarseggiare nei nostri mari. Eppure in tutta Italia tante sono le ricette tradizionali da nord a sud che si basano su pesci meno noti, spesso denominati “poveri” (invece molto ricchi di sapore e di grassi essenziali - tra cui gli Omega 3 - ritenuti ottimi agenti di prevenzione delle malattie del sistema cardiocircolatorio). È fondamentale di conseguenza diffondere il concetto di stagionalità del pescato, che consente di comprare, in certi periodi dell’anno, il pesce in periodi opportuni per gli stock e a prezzi migliori, promuovendo così anche la pesca locale. Questo perché abbiamo pescato e stiamo pescando più di quanto le popolazioni ittiche siano in grado di riprodursi. 5- RIDUCI GLI SPRECHI DI CIBO La dimensione dello spreco ha numeri inaccettabili: 1/3 della produzione mondiale non raggiunge i nostri stomaci, ovvero 1 miliardo e 600 milioni di tonnellate di alimenti viene gettato di cui l’80% è ancora buono. Oltre alle ripercussioni etiche, un cibo che non nutre nessuno è anche dannoso: l’acqua necessaria per produrre il cibo che si spreca a livello mondiale è di 250 miliardi di litri (il consumo di New York nei prossimi 120 anni), si sprecano 1,4 miliardi di ettari di suolo (si sfrutta inutilmente ossia il 30% della superficie agricola), si immettono nell’atmosfera 3,3 miliardi di tonnellate di CO2, (la terza fonte di emissione dopo la Cina e gli USA). In Italia, lo spreco di cibo ha numeri altrettanto impressionanti: vale complessivamente 8,1 miliardi di euro l'anno, ovvero 6,5 euro settimanali a famiglia e 630 grammi di cibo buttati ogni settimana. Annessa a questi sprechi c’è anche tanta natura che viene sprecata con essi. Il principale motivo di questo spreco è la disattenzione: si acquistano quantità maggiori del necessario e non si conservano correttamente. Per ridurre gli sprechi in casa è buona norma preparare una lista della spesa e attenersi ad essa, controllando le date di scadenza al momento d’acquisto e riponendo gli alimenti in frigo massimo un’ora dopo. Accertarsi del buon funzionamento del frigo, controllando le guarnizioni e la temperatura (l’ideale è tra 4-5°C), favorisce la buona conservazione degli alimenti: c’è inoltre un ripiano giusto per ogni alimento, è importante controllare sul manuale! Fai ruotare i cibi nel frigo: porta avanti quelli più vicini alla scadenza e indietro i più freschi. Al momento di cucinare, fai attenzione alle quantità. Servi poi porzioni contenute perché si può sempre fare il bis! Conserva gli avanzi in frigo in contenitori idonei e ricorda di riscaldarli bene prima di servirli. 6- PRIVILEGIA I PRODOTTI BIOLOGICI L’agricoltura biologica (definita nel Regolamento CE n. 834/07) è un sistema integrato di produzione agricola, sia vegetale sia animale, che non solo consente di disporre di cibi più sani e saporiti ma cerca al contempo di ridurre il più possibile l’impatto ambientale delle attività produttive, basandosi sul rispetto dei processi ecologici, delle risorse (in primis suolo e acqua) e della biodiversità ed eliminando l’uso di sostanze chimiche di sintesi (come concimi, diserbanti, insetticidi, pesticidi, antibiotici). L'agricoltura biologica, proibendo l’uso di fertilizzanti e i pesticidi chimici per le piante, così come antibiotici e ormoni per gli animali, riduce significativamente il rischio di contaminazione dei corsi d’acqua e di bioaccumulo di sostanze tossiche nella rete alimentare. I sistemi di allevamento biologici devono soddisfare i bisogni etologici e fisiologici degli animali creando ambienti più adatti alle specie animali con giacigli e stalle adeguate, divieto di stabulazione fissa, accesso all'aria aperta, cibo che rispetti il loro fabbisogno con prodotti vegetali ottenuti anch'essi con metodo di produzione biologico, coltivati di preferenza nella stessa azienda o nel comprensorio in cui l'azienda ricade. Si privilegiano inoltre varietà locali di piante e razze autoctone di animali (proibendo l'uso di organismi geneticamente modificati), preservando così la diversità genetica delle specie addomesticate, permettendo anche alle specie selvatiche di integrarsi alle pratiche agricole e contribuendo così alla conservazione degli habitat e delle specie selvatiche. 7- CERCA DI NON ACQUISTARE PRODOTTI CON TROPPO IMBALLAGGI Ciascun italiano produce oltre 528 kg di rifiuti l’anno, per un costo medio di gestione di 186 euro per famiglia. Circa il 40% dei rifiuti è costituito da imballaggi. Tutto quello che, infatti, acquistiamo (bibite, prodotti per la casa e per l’igiene personale, conserve, pane, ecc.) per poter arrivare sullo scaffale del supermercato e poi nelle nostre case ha bisogno di essere impacchettato o confezionato. Gli imballaggi però, una volta giunti nelle nostre case e conclusa la propria funzione di “protezione e trasporto”, si trasformano in rifiuti da smaltire. Il problema dei rifiuti si risolve anche limitando a monte la quantità di scarti che produciamo: come consumatori possiamo scegliere di acquistare merci con meno imballaggi, ricordando che questi rappresentano un costo a carico dell’ambiente in quanto richiedono risorse (energia, acqua, materie prime) per essere prodotti e hanno impatti sulle emissioni di gas serra, sulla biodiversità e salute umana. Inoltre gli imballaggi incidono notevolmente sul prezzo del prodotto finito. La soluzione sta nella scelta di prodotti sfusi e alla spina (in cui i consumatori si recano nei punti vendita muniti di un contenitore che poi riempiranno grazie al sistema dei dispenser) che puntano a ridurre rispettivamente i contenitori necessari o a permetterne il riutilizzo. Queste metodologie di vendita dovrebbero diventare pratica diffusa per la gran parte dei prodotti (frutta,verdura, detersivi, latte, pasta, acqua minerale e quant’altro) quanto prima. 8- CERCA DI EVITARE I CIBI ECCESSIVAMENTE ELABORATI I piatti pronti hanno fatto registrare, tra tutti gli alimentari, il record di aumento delle quantità acquistate, con una crescita del 10% negli ultimi anni. Nella categoria dei cibi elaborati, i consumi di verdure pronte sono triplicati negli ultimi 10 anni, arrivando nel 2010 ad essere presenti nel carrello di 1 italiano su 2, soprattutto insalate pronte. Il volume del mercato dell'ortofrutta pronta per l'uso, la cosiddetta “quarta gamma”, è stato pari a 90 milioni di chili per una spesa di oltre 700 milioni di euro. Questa tipologia di alimenti (che include anche sughi, surgelati, caffè in cialde, piatti pronti refrigerati, barrette di cereali, frutta già tagliata in vaschetta e prodotti light) ha impatti molto elevati, prioritariamente dovuti alle richieste di energia nelle fasi di produzione e conservazione. Per valutare la sostenibilità dei principali alimenti, un indicatore è il rapporto fra l’energia utilizzata per la preparazione di un determinato alimento e l’apporto energetico dell’alimento stesso. Se nel 1910, nelle società pre-industriali, il suddetto rapporto era all’incirca unitario (tanta energia veniva spesa per produrlo, tanta ne restituiva in calorie l’alimento), oggi, in alcuni casi si arriva a superare quota 100 (ossia occorre 100 volte più energia per produrlo di quanta ne fornisca l’alimento). Basti pensare ai prodotti light! È evidente dunque l’importanza di essere consapevoli delle conseguenze esplicite ed implicite di natura ecologica, sociale ed economica delle proprie scelte alimentari. Non si deve rinunciare a tutto, ma provare a sostituire qualche snack con un frutto fresco e rimettersi qualche volta in più ai fornelli, per non perdere la conoscenza delle caratteristiche e proprietà dei cibi che si portano a tavola e delle tradizioni culinarie italiane. 9- BEVI ACQUA DEL RUBINETTO L’acqua in bottiglia è totalmente insostenibile sotto il profilo ambientale. Il suo uso potrebbe essere giustificato solo laddove quella del rubinetto non fosse idonea per l'uso alimentare ma, nella gran parte delle città italiane, invece, la qualità dell'acqua di rubinetto è sicura, salubre, batteriologicamente pura e accettabile al gusto. Di contro gli italiani, attirati probabilmente dalla pubblicità che attribuisce all'acqua imbottigliata proprietà "terapeutiche" e di dimagrimento (difficili da dimostrare ma effettive soprattutto sul prezzo) sono i più grandi consumatori d'Europa di acqua in bottiglia, con 192 litri a testa. Per rendersi conto dell’entità del problema basti pensare che siamo oltre 60 milioni di persone in Italia. Spesso, inoltre, si tratta solo di una questione di gusto: molti non sanno che bisogna solo lasciare riposare l'acqua per qualche ora perché il sapore diventi più gradevole. É invece un dato di fatto come l'acqua imbottigliata determini un enorme aumento dei cicli di produzione e smaltimento dei contenitori in plastica (solitamente in PET la bottiglia e in differente polimero, il tappo), nonché un inquinamento dovuto alle operazioni di trasporto, principalmente effettuate su gomma. Sotto il profilo ambientale è assolutamente insensato trasportare, per i normali consumi familiari, bottiglie di acqua da una parte all'altra del nostro Paese spostandole per migliaia di chilometri così come è insostenibile la mole di rifiuti che ogni anno deve essere di conseguenza gestita. La migliore acqua da bere non si trova necessariamente in una bottiglia: se vogliamo bere acqua pura dobbiamo porre maggiori sforzi nel proteggere fiumi, laghi e falde idriche e investire affinché l’acqua arrivi in modo sicuro alle case del consumatore attraverso i rubinetti. 10- EVITA SPRECHI ANCHE AI FORNELLI Oltre a riciclare quello che avanza in cucina, anche l’uso corretto dei fornelli può aiutare a non “bruciare” risorse! Quando usi il forno, puoi decidere di mettere a cuocere più teglie insieme, cercando di evitare di aprire in continuazione il forno. Puoi, inoltre, spegnere qualche minuto prima dell’avvenuta cottura, ultimandola con il calore residuo. Un’altra potenziale forma di risparmio è legata all’uso del coperchio capace di ridurre i tempi di cottura e l’energia utilizzata. In questo la pentola a pressione è maestra: dimezza i tempi ed è ottima per soprattutto per cibi che vanno lessati, stufati o cotti al vapore. Occhio alla fiamma: è importante scegliere pentole e fornelli proporzionati tra di loro, infatti solo il calore che raggiunge il fondo della pentola è utile alla cottura…se la fiamma va oltre i bordi spreca energia e brucia i manici! Anche la scelta del recipiente in cui cucinare è importante: i recipienti in rame e alluminio, ad esempio, possono essere dannosi per la salute perché durante la cottura rilasciano sostanze pericolose. Stesso discorso vale per le pentole in coccio e terracotta rivestite spesso da smalti e colori tossici, come il piombo, usati per dare maggiore brillantezza ai colori. Attenzione anche alle pentole antiaderenti: al momento dell’acquisto controlliamo sull’etichetta che non contengano PFOA, acido perfluoroottanoico, la cui tossicità è ormai ampiamente dimostrata. In alternativa sono stati fabbricati pentole antiaderenti in ceramica, ma alcuni processi produttivi impiegano sostanze inquinanti o smalti non completamente atossici. L’acciaio inox è un materiale particolarmente inerte, atossico e adatto praticamente ad ogni tipo di cottura. È necessaria semplicemente un po’ di attenzione per evitare che i cibi si attacchino al fondo, ma la salute ci guadagna! Un altro materiale sicuro è il vetro Pirex ottimo per cucinare in forno.



CIBO E AMBIENTE
Ogni volta che si va a fare la spesa, si entra al supermercato o ci si reca al mercato, si compiono delle scelte che non si rifletteranno solo sulla salute dell’individuo, ma anche sull’ambiente. Si sa benissimo che mangiare frutta e verdura di stagione permette all’organismo di introdurre tutte quelle vitamine, sali minerali, sostanze antiossidanti e acqua di cui ha bisogno soprattutto in quel particolare periodo dell’anno. Quando in inverno, ad esempio, si è particolarmente soggetti a contrarre influenze e raffreddori, consumando frutta e verdura ricca di vitamina C si può prevenirli e combatterli. Madre natura, infatti, mette a disposizione dell’uomo arance, mandarini, pompelmi, kiwi, cavoli e cavolfiori, tutti presenti nei mesi autunnali e invernali, preziosi alleati della salute. Il cibo da una parte assume una concreta valenza assolutamente nutrizionale, di cui le numerose ricerche e studi hanno assodato la gran parte delle proprietà organolettiche e funzionali per ciascuna categoria, ma dall’altra deve anche assumere una valenza ambientale, poiché ogni cibo compie un particolare percorso per raggiungere le tavole, e molto spesso questo fattore lo si ignora, o meglio lo si conosce solo parzialmente. Da dove arrivano le fragole da preparare in macedonia? Da dove proviene l’arrosto che cuoce sui fornelli e l’ananas che si sta affettando? Queste e tante altre domande possono sorgere in tutti e certamente un grande e valido aiuto arriva dalla semplice lettura dell’etichetta, grazie alla quale per molti alimenti si forniscono indicazioni precise sulla provenienza. L’etichetta è la carta d’identità del cibo, ed è per legge molto precisa, soprattutto per alcune categorie come ad esempio per la carne bovina o di pollo. A seguito degli scandali alimentari legati alla BSE e all’influenza aviaria, l’etichetta ha subito delle profonde trasformazioni, permettendo al consumatore un cammino più chiaro verso la tracciabilità e la garanzia di una sicurezza alimentare. Stesso iter è stato seguito per altri alimenti, quali le uova, il latte fresco, l’olio extravergine di oliva, in cui leggendo l’etichetta è possibile riscontrare molte informazioni relative al luogo di produzione, al paese, al produttore ecc. Fino a qui, tutto chiaro, l’etichetta è un valido aiuto per conoscere meglio il cibo che si acquista, ma la riflessione sugli acquisti dovrebbe andare ancora oltre alla mera lettura, soffermandosi sulla distanza chilometrica che il cibo percorre e sull’inquinamento prodotto a seguito e conseguentemente al suo trasporto. Ad esempio l’alimento che percorre il suo viaggio verso le tavole delle case o dei ristoranti, su camion, su un aereo, quanti chilometri ha percorso? O ancora, quanta acqua è impiegata per produrre la pasta che si sta consumando? Quanta ne è necessaria per produrre il granoturco che andrà a soddisfare i fabbisogni di un allevamento bovino? Queste e molte altre sono le domande che un consumatore critico e consapevole dovrebbe porsi, per comprendere il significato del mondo legato al cibo, e andare oltre agli aspetti molto importanti della nutrizione e della scienza dell’alimentazione, acquisire cioè una sempre maggiore sensibilità sul peso delle proprie scelte alimentari nei confronti del pianeta. Il cibo ha un costo, si sa, ma quando si giunge alla cassa del supermercato per effettuare il pagamento, si sa tale costo da che cosa è prodotto? Il latte, ad esempio; da cosa è motivato il prezzo al litro e quanta energia si consuma per produrre un litro di latte, a quali risorse naturali si fa appello? Per produrre un litro di latte, è fondamentale partire dalla terra, cioè da un appezzamento terriero che sarà dedicato alla semina e coltivazione di erbe e cereali; “il pranzo e la cena” dei bovini. Per produrre un litro di latte, partendo dalla terra e da ciò che in essa viene coltivato, è possibile dire che sono necessarie dalle 9 alle 11 MJ/litro di latte come consumo di energia, ciò produce da 1 a 2 Kg Co2 eq/litro di latte di gas (effetto serra), e ben circa 1000 litri di acqua necessari per la coltivazione, la raccolta, l’energia ecc (sempre per un litro di latte). Senza contare che il latte va poi contenuto in una bottiglia, che molto spesso è di plastica, e dunque vi è da considerare anche il “peso” della scelta del materiale, che per quanto si raccolga in maniera differenziata è sempre uno dei tanti materiali inquinanti prodotti dall’uomo. La stessa FAO ha evidenziato, in una sua relazione, quale sarebbe l’impronta ecologica del latte, o meglio della filiera del latte, e i dati metterebbero sotto la lente di ingrandimento il prodotto, poiché avrebbe un certo peso sulla globale emissione a effetto serra. Si conterebbero all’incirca un 3% di gas climalteranti a carico della sopra citata filiera. Il lavoro è cominciato nel 2006 dall’ONU attraverso la “Livestock’s Long Shadow”, grazie alla quale si rileva che il 18% delle emissioni totali sarebbe a carico del settore zootecnico. A tal riguardo ecco allora spuntare il concetto di Carbon Footprint anche chiamato o meglio tradotto in impronta carbonica. Ogni piatto che arriva sulle tavole, siano esse quelle domestiche o quelle di un ristorante, compie un certo percorso. Bene: una catena di ristoranti internazionali vegetariani, la “Otarian”, ha deciso di indicare direttamente sul menù la C02 prodotta e liberata in atmosfera per creare ogni singola pietanza del menù, ciò che sta accadendo nei ristoranti facenti parte della suddetta catena a New York e a Londra. Il cliente, in questo modo conosce quale può essere l’impatto della propria scelta alimentare sull’ambiente nel quale vive. A ogni scelta, infatti, vi è indicato il corrispettivo legato all’impronta carbonica, con il paragone a fianco di un piatto a base di carne e le ovvie differenze. Il calcolo considera tutta la filiera, partendo dalla raccolta delle materie che andranno a costituire la pietanza, al loro trasporto (su strada, via mare, o tramite aereo), l’energia impiegata per la preparazione, la cottura, nulla è tralasciato! La stessa catena ha inoltre introdotto, come in realtà stanno facendo anche altre realtà simili, una certa sensibilità nella scelta del packaging, che si sa quanto abbia anch’esso un peso sull’ambiente. Di seguito una tabella che evidenzia in base ad alcuni semplici esempi, il consumo di Co2 in relazione alla distanza compiuta dal viaggio da un paese lontano verso l’Europa. Sullo stesso filone si pone l’etichetta Water Footprint ovvero un’etichetta che comunica e informa il consumatore sul quantitativo di acqua che è stato utilizzato per produrre l’alimento appena acquistato. I due concetti, Carbon Footprint e Water Footprint, sono in effetti particolarmente collegati e logicamente appartengono a un’unica filosofia fondata sul rispetto ambientale. Gli studi di settore su questo argomento sono moltissimi e tra i più interessanti vi è quello seguito e compiuto dalla Global Environmental Change, in cui si evidenzia che per produrre il famoso sacchettino giallo contenente le caramelle di cioccolato (M&M) sono necessari ben 1000 litri di acqua. L’acqua rientra nella produzione di tutte le cose che vengono quotidianamente consumate, come ad esempio la carne sia essa rossa o bianca, il latte precedentemente citato, la farina per il pane e la pasta, il riso, la frutta e la verdura, ovviamente in quantità diverse. Per calcolare la personale impronta idrica, basta inserire i dati richiesti nel sito: http://www.waterfootprint.org/?page=cal/WaterFootprintCalculator Cosa è possibile fare, nel proprio piccolo, per limitare un impatto ambientale troppo negativo? Si possono, ad esempio, attuare delle piccole ma concrete azioni, come le seguenti: - Acquistare cibo a km zero; - Rispettare le scelte commerciali dove vi è una filiera corta; - Ridurre gli imballaggi, ad esempio scegliendo quei esercizi commerciali in cui si vendono vino, pasta, riso, legumi, detersivi in forma sfusa, per trasportare i quali ci si porta da casa i contenitori; - Comprare frutta e verdura di stagione e locale; - Fare la spesa a piedi o in bicicletta; - Usare borse di tela o riutilizzare il più possibile quelle di plastica. Questi e tanti altri piccoli gesti possono fare diventare dei consumatori consapevoli e critici, nel pieno rispetto della salute e dell’ambiente nel quale si vive. FONTE: http://www.benessere.com/alimentazione/arg00/cibo_ambiente.htm






Gli sprechi alimentari gravano sul clima, sulle risorse idriche, sul suolo e sulla biodiversità
Secondo un nuovo rapporto FAO i costi economici diretti sono di 750 miliardi di dollari l'anno - Necessarie migliori politiche Roma 11 settembre 2013 - La perdita della strabiliante quantità di 1,3 miliardi di tonnellate di cibo l'anno non solo causa gravi perdite economiche, ma anche grava in modo insostenibile sulle risorse naturali dalle quali gli esseri umani dipendono per nutrirsi, denuncia un nuovo rapporto FAO pubblicato oggi. Il rapporto Food Wastage Footprint: Impacts on Natural Resources (L'impronta ecologica degli sprechi alimentari: l'impatto sulle risorse naturali N.d.T.) è il primo studio che analizza l'impatto delle perdite alimentari dal punto di vista ambientale, esaminando specificamente le conseguenze che esse hanno per il clima, per le risorse idriche, per l'utilizzo del territorio e per la biodiversità. Il rapporto evidenzia che: Ogni anno, il cibo che viene prodotto, ma non consumato, sperpera un volume di acqua pari al flusso annuo di un fiume come il Volga; utilizza 1,4 miliardi di ettari di terreno - quasi il 30 per cento della superficie agricola mondiale - ed è responsabile della produzione di 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra. Oltre a questo impatto ambientale, le conseguenze economiche dirette di questi sprechi (esclusi pesci e frutti di mare), si aggirano secondo il rapporto intorno ai 750 miliardi di dollari l'anno. "Queste tendenze mettono un'inutile e insostenibile pressione sulle risorse naturali più importanti, e devono essere invertite", ha affermato il Direttore Generale della FAO, José Graziano da Silva. "Tutti - agricoltori e pescatori, lavoratori nel settore alimentare e rivenditori, governi locali e nazionali, e ogni singolo consumatore - devono apportare modifiche a ogni anello della catena alimentare per evitare che vi sia spreco di cibo e invece riutilizzare o riciclare laddove è possibile". "Oltre all'imperativo ambientale, ve n'è anche uno di natura etica: non possiamo permettere che un terzo di tutto il cibo che viene prodotto nel mondo vada perduto, quando vi sono 870 milioni di persone che soffrono la fame", ha aggiunto Graziano da Silva. Insieme al nuovo studio la FAO ha pubblicato anche Toolkit: Reducing the Food Wastage Footprint, un manuale di 100-pagine su come ridurre le perdite e gli sprechi di cibo in ogni fase della catena alimentare. Nel manuale vengono presentati un certo numero di progetti che mostrano come governi nazionali e locali, agricoltori, aziende e singoli consumatori possono adottare misure per affrontare il problema. Achim Steiner, Sotto-Segretario Generale dell'ONU e Direttore Esecutivo del Programma per l'Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), ha dichiarato: "L'UNEP e la FAO hanno identificato lo spreco di cibo come una grande opportunità verso un'economia verde a basse emissioni di carbonio, che fa un uso efficiente delle risorse". "Il rapporto presentato oggi dalla FAO sottolinea i molteplici vantaggi che possono essere realizzati - in molti casi attraverso semplici misure da parte delle famiglie, dei dettaglianti, dei ristoranti, delle scuole e delle imprese - che possono contribuire alla sostenibilità ambientale, a migliorare l'economia e la sicurezza alimentare, e alla realizzazione della sfida Fame Zero lanciata dal Segretario Generale delle Nazioni Unite". L'UNEP e la FAO sono i cofondatori della campagna Think Eat Save per ridurre l'impronta ambientale lanciata all'inizio 
dell'anno, il cui scopo è dare assistenza e coordinare a livello mondiale l'impegno per ridurre gli sprechi alimentari.
Come e dove viene sperperato il cibo Secondo lo studio FAO, il 54 per cento degli sprechi alimentari si verificano "a monte", in fase di produzione, raccolto e immagazzinaggio. Il 46 per cento avviene invece "a valle", nelle fasi di trasformazione, distribuzione e consumo. In linea generale, nei paesi in via di sviluppo le perdite di cibo avvengono maggiormente nella fase produttiva, mentre gli sprechi alimentari a livello di dettagliante o di consumatore tendono ad essere più elevati nelle regioni a medio e alto reddito - dove rappresentano il 31/39 per cento del totale - rispetto alle regioni a basso reddito (4/16 per cento). Il rapporto fa notare che più avanti lungo la catena alimentare un prodotto va perduto, maggiori sono le conseguenze ambientali, dal momento che i costi ambientali sostenuti durante la lavorazione, il trasporto, lo stoccaggio ed il consumo devono essere aggiunti ai costi di produzione iniziali. Zone critiche Lo spreco di cereali in Asia è un problema di notevoli dimensioni, che ha grandi ripercussioni sulle emissioni di carbonio, sulle risorse idriche e sull'uso del suolo. Nella coltivazione del riso questo è particolarmente evidente, in considerazione dell'elevata emissione di metano che la sua produzione comporta e del grande livello di perdite. Mentre il volume degli sprechi di carne in tutte le regioni del mondo è relativamente basso, il settore carne genera un notevole impatto sull'ambiente, in termini di occupazione del suolo e di emissioni di carbonio, in particolare nei paesi ad alto reddito e in America Latina, che insieme sono responsabili dell'80 per cento di tutti gli sprechi di carne. Escludendo l'America Latina, le regioni ad alto reddito sono responsabili di circa il 67 per cento di tutto lo spreco di carne. In Asia, America Latina ed Europa lo spreco di frutta contribuisce in modo significativo al consumo di risorse idriche, soprattutto a causa dell'alto livello di perdite. Allo stesso modo, il grande volume di spreco di verdure in Asia, Europa, Sud e Sud-Est asiatico si traduce in una grande impronta di carbonio per tale settore. Le cause dello spreco di cibo e i suggerimenti su come ridurlo Alla base dell'alto livello di perdite alimentari nelle società opulente vi è il comportamento dei consumatori insieme alla mancanza di comunicazione lungo la catena di approvvigionamento. I consumatori non riescono a pianificare i propri acquisti, comprano più cibo di quel che serve, o reagiscono in modo eccessivo all'etichetta "da consumarsi entro", mentre eccessivi standard di qualità ed estetici portano i rivenditori a respingere grandi quantità di cibo perfettamente commestibili. Nei paesi in via di sviluppo, le perdite avvengono principalmente nella fase post-raccolto e di magazzinaggio a causa delle limitate risorse finanziarie e strutturali nelle tecniche di raccolto, di stoccaggio e nelle infrastrutture di trasporto, insieme a condizioni climatiche favorevoli al deterioramento degli alimenti. Per affrontare il problema, il manuale della FAO presenta tre livelli in cui è necessario intervenire: La riduzione degli sprechi dovrebbe diventare una priorità. Limitando le perdite produttive delle aziende agricole dovute a cattive pratiche e bilanciando meglio la produzione con la domanda consentirebbe di non utilizzare le risorse naturali per la produzione di cibo non necessario. In caso di eccedenze alimentari, il riutilizzo all'interno della catena alimentare umana - la ricerca di mercati secondari o la donazione del cibo eccedente ai membri più vulnerabili della società - rappresenta l'opzione migliore. Se il cibo non è idoneo al consumo umano, la seconda alternativa è quella di destinare il cibo non utilizzato all'alimentazione del bestiame, preservando risorse che sarebbero altrimenti utilizzate per produrre mangimi commerciali. Laddove il riutilizzo non fosse possibile, si dovrebbe pensare a riciclare e recuperare l'eccedenza di cibo: riciclaggio dei sottoprodotti, decomposizione anaerobica, elaborazione dei composti e l'incenerimento, con recupero di energia rispetto all'eliminazione nelle discariche. (Il cibo non consumato che finisce per marcire nelle discariche è per altro un grande produttore di metano, gas serra particolarmente dannoso). Il rapporto Food Wastage Footprint ed il manuale su cosa fare contro gli sprechi sono stati finanziati dal governo tedesco. FONTE: http://www.fao.org/news/story/it/item/196458/icode/











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